Angri 6 dicembre 2014
Premesso che la tradizione risulta sorprendente perché ci riferisce di un incalcolabile numero di luoghi e modi della felicità, ho deciso di assumere la concezione del tempo come loro denominatore comune: la temporalità. Non parlo di ciò che il tempo è (tutti lo fanno, nessuno potrebbe) ma di come ci viene riferito e di come è rispondente rispetto al tema.
Il tempo della felicità ha un singolare carattere? Quale luogo, cioè quale tempo, ha la felicità?
Ma la tradizione riporta molti modi (credo siano in fondo innumerevoli!) anche nella prospettiva del tempo. La definizione che prendo allora in considerazione è solo una, quella della nostra percezione del tempo in relazione alla felicità, nel senso della riuscita: intendo p. e. come di un’azione che si dica “felicemente riuscita”. La tradizione riporta che l’azione si ritiene felicemente riuscita qualora si colga il tempo opportuno per la sua riuscita. I Greci chiamarono quel tempo opportuno il kairòs. P. e., il momento decisivo per l’azione militare; il momento decisivo per la direzione della cura e guarigione in medicina … nella navigazione, il momento decisivo per decidere la rotta e le modalità … (in navigazione, ciò avveniva anche in concorrenza con la métis, l’astuzia).
Dunque la concezione del kairòs è connessa alla qualità del tempo, nella supposizione che vi sia un tempo giusto e opportuno perché le cose riescano, e un tempo in cui le cose non possano riuscire. Quello opportuno è un tempo felice e ogni altro tempo al di fuori di quello non lo è. La concezione del tempo come successione quantitativa (temporalità: mentre quella era: tempestività) è invece, ovviamente, quella del krònos.
Mi sono chiesto se dobbiamo veramente ritenere che le cose stiano così e credo che possano anche diversamente e mi sembra che quello del kairòs non sia che un punto di vista. Il mio problema, da assumere con ogni cautela, è: si può trasformare il tempo come successione amorfa di istanti (l’ "ora") in un tempo durevole ma qualitativamente segnato?
Prendiamo in considerazione il dolore: noi siamo disposti a dire di avere attraversato un periodo lungo – qualcuno, una vita – poco piacevole o doloroso. Si tratta allora di un tempo durevole ma qualitativamente segnato. Perché allora non l’opposto? Sarebbe cioè possibile sostenere che è stata, in passato, una vita felice? Ho visto che molti l’hanno fatto. Indagando la tradizione, devo dire che le scuole di filosofia lavoravano proprio per questo, perché la vita cambiasse, e non solo qualche momento della vita; e la conoscenza e quindi la filosofia indiane sembrano che siano per cambiare la vita e non restano fini a se stesse. Il buddhismo ne è un illustre esempio ma non il solo. Quanto alla religione cattolica, diciamo, in modo un po’ sommario, che qui esiste l’idea della letizia, che è connessa alla beatitudine eterna. Non sono che indicazioni, d'accordo, ma esistono.
In che senso possiamo arrivare a sostenere che una vita è felice? O sentire che lo è stata? Non pretendo, secondo le distinzioni fatte la volta precedente, che una vita sia gioiosa. L’esempio della gioia certamente non è per tutti e/o per tutti i momenti.
Forse si possono improvvisare le seguenti indicazioni in attesa delle prossime occasioni di approfondimento, qui all’ “officina delle idee”. Per quanto riguarda ciò che chiamiamo passato, se ne muta di fatto il segno e il colore, perché la memoria è plastica: avviene. Per quanto riguarda il presente, si può pensare (perché vi sono tradizioni che lo dicono) che possiamo lavorare agli atteggiamenti, quindi a noi stessi e ovviamente alle cose, affinché non vi sia, in generale, tempo privo di momento felice. A questo mi porta il viaggio nella tradizione. Posso evitare di collegare l’idea della felicità a quella di prestazione oppure posso cambiare il concetto di prestazione. Ovviamente ciò richiederebbe una società diversa, molto più lenta, per così dire, di come è la nostra, frenetica e liquida. Forse in questo tipo di società siamo condannati alla necessità del risultato.
Eppure in generale nella vita non v’è porta che si chiuda che non ne apra altre, e non v’è occasione passata che non preluda ad altre future, se non anche alla stessa, che in altra forma si ripresenti, e quindi mai nella stessa.
Celebre, l’epigramma di Posidippo (IV secolo a.C.), che si tramanda scolpito sulla statua lisippea del kairòs:
(...) E chi sei tu? Il tempo che controlla tutte le cose.
Perché ti mantieni sulla punta dei piedi? Io corro sempre.
E perché hai un paio di ali sui tuoi piedi? Io corro con il vento.
E perché hai un rasoio nella mano destra? Come segno per gli uomini, che sono più tagliente di qualsiasi appuntito bordo.
E perché hai dei capelli davanti al viso? Perché colui che mi incontra possa prendermi per il ciuffo.
E perché, in nome del cielo, hai la parte posteriore della testa calva? Perché nessuno, che una volta mi ha lasciato correre sui miei piedi alati, benché si auguri che ciò accada, mi afferri da dietro (...)
Eppure in generale, forse, esiste la maniera di evitare che quel rasoio tagli e separi, lavorando a smussarne le punte.