La discussione sembra consistere nel collegare i tre termini: felicità, corpo, attraverso il medio del piacere. La tradizione del pensiero e delle cd. scienze umane e non umane lascia una serie di argomenti di riflessione in continuo mutamento.
1. Il concetto di corpo è sempre stato connesso alla sensibilità: cos’ha a che fare il piacere con il corpo ovvero con la sensibilità? Il piacere, come il dolore, è la forma o tonalità di fondo di qualunque emozione.
Agli albori della nostra tradizione trovo Platone che non solo collega la felicità al piacere ma anche alla stabilità del piacere: riconosciamo la mano del maestro nelle parole
“dato che i piaceri sono di tre tipi, quello che appartiene alla parte dell’anima con cui impariamo non dovrebbe essere il più soave? E non diresti che fra noi la vita più dolce l’abbia proprio colui nel quale tale piacere prevale?” ("Repubblica"., IX 583A).
Aristotele, sulla base di definizioni platoniche, afferma
“non è giusto dire che il piacere è una generazione percepita dai sensi, bensì piuttosto si deve dire che esso è l’attività d’una disposizione conforme a natura”
(ma Abbagnano "Dizionario di filosofia" 670 traduce “l’atto di un abito che è conforme a natura”("Etica Nicomachea", VII, 12, 1153a). Per non complicare, mi chiedo cosa voglia dire “disposizione”: essa è definita come “tendenza, inclinazione o atteggiamento” (Abb. cit. 261; con rif. ancora ad Aristotele, "Metafisica" V, 20, 1022b 10). Ancora Abbagnano (cit.) ritiene evidente come Aristotele, sulla scia di Platone, intenda separare la definizione del piacere dalla sensibilità: perché “un abito (cioè una disposizione costante, n.d.r.) può essere sia sensibile che non sensibile”, e difatti addirittura trovo che per Aristotele “invece di dire che essa (l’attività del piacere) è percepita dai sensi si deve dire che è non ostacolata” (Aristotele, Met., cit.).
Invece oggi, sulla scia di venticinque secoli di pensiero e di conoscenza, siamo indotti a domandarci: se il piacere non fosse vincolato alla sensibilità, allora cosa sarebbe? E rispondiamo: nulla che possa avere un senso. Perché tutto, a quanto oggi risulta, si lega alla base sensibile. E la proposta dell’intellettualismo greco è così capovolta. Alla base della concezione platonico-aristotelica era difatti la distinzione tra piaceri sensibili e piaceri intelligibili o piaceri della ragione. Ma oggi, sulla scorta della concezione dell’unità e degli studi delle neuroscienze, noi crediamo di non poter svincolare il piacere dalla sensibilità e quindi dal corpo, benché ovviamente si diano vari livelli, per così dire, di raffinatezza della sensibilità e del piacere.
2. A dire il vero, potrei tentare di rintracciare elementi simili in altre tradizioni per poi pervenire a conclusioni affini o meno alle precedenti. Mi arrischio, pur nei limiti del presente intervento, a citazioni di seconda e terza mano: guardo le tradizioni buddhista e induista. Scrive D. Goleman (cf. "La forza della meditazione", 44-55) della prima che il nirvana come stato finale, come estinzione dei moventi sensibili e cessazione, è il controllo totale della mente ma è pur sempre legato al corpo, in quanto noi esistiamo, e aggiungo che risulta oggi monitorabile. Dal punto di vista induista invece propongo il "Kamasutra" (V sec. d.C.). Il "kama" era “qualsiasi esperienza gradita, riprendendo nella concatenazione sensi-mente-anima i termini della teoria della conoscenza elaborata nelle scuole filosofiche … e trasferendoli all’amore erotico”; “il piacere riguarda non il corpo contrapposto all’anima ma il vivente nella sua interezza, in tutte le sue svariate forme di attività e percezione” (cit. in S. Natoli, 2003); tanto per precisare che la celebre ars amatoria descritta nella II parte è il completamento d’una forma di vita ideale, da ottenere mediante una disciplina, e che essa costituiva il culmine a cui concorrevano “64 scienze complementari” come “danza, pittura, colorare i denti, ornare le orecchie, cucinare varie verdure, zuppe e cibi solidi, saper recitare un testo in compagnia, comporre poesie mentalmente” (ivi): come si vede, si tratta pur sempre di forme di spiritualità, che ricercano la completezza di vita, ma in modi estremamente diversi tra di loro e dal nostro.
3. Il piacere è dunque il/nel corpo e non si potrebbe fare a meno, almeno nella nostra tradizione e per quanto oggi ne sappiamo, del riferimento al corpo per situarlo. Una prima conclusione è quindi che, contrariamente a quanto volevano Platone e Aristotele, e per quanto ne sappiamo, il piacere, in qualunque forma si presenti, è connesso al corpo.
4. L’altra domanda è: come tutto questo, ovvero le forme del piacere, connesse al corpo, ha a che fare con la felicità? All’inizio dei nostri incontri definimmo la felicità come uno stato del sentire, quindi una specie di emozione, consistente “nella sensazione dell’illimitata espansione di sé” (cf. Natoli 2003), per non dirne che un’accezione generica, media (allora distinsi tra gioia, felicità e letizia). Per iniziare a rispondere si veda Platone ("Repubblica" IX, 580 sgg: il dominio della parte migliore sulla peggiore – dello stato, dell’anima – è fonte di felicità; il piacere è di tipi diversi ma quello che prova il filosofo è il più soave e solo la ragione, cogliendo verità stabili, procura vero piacere; ferme restando le osservazioni sulla sensibilità che ho espresso all’inizio. Il punto decisivo per una risposta è dunque, come detto in partenza e secondo definizioni, che la felicità in fondo deve consistere in un sentire, e nel sentire una specie di piacere e il sentire, per quanto elevato e raffinato sia, è sempre legato al corpo, dunque si dovrà dire che la felicità consiste in uno stato piacevole del sentire, o della mente/corpo.
5. Ancora, il pensiero filosofico afferma, sia detto con buona approssimazione, che il piacere “è l’indice di uno stato o condizione particolare o temporanea di soddisfazione, mentre la felicità è uno stato costante e duraturo di soddisfacimento totale o quasi totale” (Abbagnano, cit., p. 670). Ne consegue che il piacere non è necessariamente felicità, anche se non può esservi felicità senza connotazione di piacere. S’intende come Natoli (cit.) possa osservare che il modello generale per la felicità sia il piacere della sessualità. Ma s’intende anche, come egli pure afferma, come ciò non possa valere del tutto, se il rapporto tra piacere (sessuale, orgasmo) e felicità è come quello tra il limitato nel tempo e il duraturo nel tempo (rapporto quantitativo);
6. Ma soprattutto s’intende come non possa valere tale accostamento del piacere sessuale, o qualunque altro, alla felicità, se non a certe condizioni (rapporto qualitativo): per noi, che non ci troviamo in un contesto forse idealizzato, come quello di fusione completa, prospettata nel quadro quasi mitico del lontano Kamasutra, o di altri, da cui possiamo solo avere qualche idea; e non insidiata dall’irruzione del drammatico sentimento della precarietà nell’Occidente moderno: come p. e. scrive D’Annunzio nel romanzo "Il piacere" – attribuendo quei pensieri al protagonista maschile – “nell’amore ogni possesso è imperfetto e ingannevole, ogni piacere è misto di tristezza, ogni godimento è dimezzato; ogni gioia porta in sé un germe di sofferenza, ogni abbandono porta in sé un germe di dubbio; e i dubbi guastano, contaminano, corrompono tutti i diletti”.
7. Chiudo con tre domande, una indicazione e una suggestione.
7.1 Bisognerebbe dunque concludere che la felicità certamente consiste nell’avvertimento del piacere, che è pur sempre corporeo e sensibile: ma a quali condizioni il piacere, comunque sensibile, viene sentito e definito come felicità?
7.2 E se sia duraturo il piacere avvertito, a quali condizioni sarà sentito come felice?
7.3 E se il piacere non sia duraturo, allora non si tratterà mai di felicità? Ma se si tratta di un fatto così positivo (non tragico, orrendo, s’intende) che resterà, sia pure nella memoria: ciò che resta memorabile, non sarà ugualmente qualcosa di felice, benché non duraturo?
Comincia ad emergere che il rapporto felicità-piacere-corpo sia così: il piacere/corpo può essere breve ma felice, oppure breve ma infelice; o può essere duraturo ma felice, oppure duraturo ma infelice. Dipende; è ovvio che, così, abbiamo solo indicazioni preliminari a un’indagine sul rapporto felicità-piacere (corpo). Ancora un passo e si dovrebbe suggerire, come provvisoriamente concludo, che il rapporto felicità-piacere-corpo è il seguente: felicità è un piacere raffinato ed elevato, legato al corpo e alla sensibilità, conseguente in genere a una disciplina (cioè una serie di regole di condotta e forse un’etica) o a una vita inconsapevolmente disciplinata ovvero ordinata (come in Platone ma anche in modo diverso nel "Kamasutra" e nell’ascetica buddhista), e che si avverte (pur forse non essendolo) come stabile e quindi duraturo nel tempo ...
“Anche se vive l’uomo per molti anni se li goda tutti,
e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti …
Sta lieto, o giovane nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore …
Caccia la malinconia dal tuo cuore,
allontana dal tuo corpo il dolore,
perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio”. (Qohelet, “libro delle vanità”, 11,7; 9; 10)