Non vuol essere certo, questo, un intervento solo tecnico, ma partecipante, né s’intende partecipare solo alle indubbie difficoltà della scuola, ma si vuol condividere quelle di talune famiglie e portare loro, oltre che generica solidarietà, qualche consiglio.
Il titolo dell’articolo si pone pertanto dal punto di vista della famiglia (“Nostro figlio deve ripetere l’anno scolastico”) e il sottotitolo anche da quello della scuola (ovvero, qualche considerazione sul fenomeno delle non ammissioni all’anno successivo: “brevi linee per genitori e professionisti di buona volontà”). Il problema, in effetti, viene affrontato prendendo in considerazione i due punti di vista: quello della famiglia e quello della scuola.
Poiché in genere siamo tutti genitori, anche quando ci troviamo nella scuola, appare sempre doveroso cercar di comprendere il punto di vista della famiglia che si trova ad affrontare l’empasse dell’insuccesso scolastico: perché in genere tutta la famiglia vi è coinvolta.
Cosa diremmo noi della scuola mettendoci al posto dei genitori – e abbiamo detto che qualche volta può avvenire – invece di cavarcela con facili sarcasmi, e prima ancora di puntare l’indice e accusare la scuola? Domandiamoci, genitori: cosa non ha funzionato, dal nostro punto di vista? Perché, sempre in sintesi, ci pare che per un ragazzo normodotato i problemi possano essere di due tipi: o egli manifesta uno stile di apprendimento che risente di tempi lentissimi o lenti rispetto alla “velocità” media con cui “la classe” (perniciosa astrazione …) procede, oppure la famiglia come sistema educativo, per quanto concerne le regole, non funziona bene, e allora la questione dei doveri, delle responsabilità e dell’apprendimento viene in parte, o del tutto, disattesa dall’adolescente.
Nel primo caso, si tratterà di concordare con i professori le modalità di intervento della famiglia e quelle della scuola. La scuola, come si dirà, è tenuta a intervenire, in primo luogo segnalando tempestivamente e puntualmente, efficacemente, il problema. Sarebbe anche tenuta a cercare di risolverlo; la personalizzazione nell’apprendimento significa proprio questo e l’ordinanza sui debiti e sui recuperi fornisce strumenti attuativi. Dove la scuola non riesce, per qualche motivo, la famiglia può (ma dovrebbe) attivarsi, facendo seguire o seguendo essa stessa il ragazzo in modo efficace. S’intende che tutto questo costituisce a sua volta un problema, ma non si possono qui affrontare nel dettaglio tutte le questioni. Qui stiamo parlando della famiglia: almeno in idea, laddove i luoghi critici dell’apprendimento di un ragazzo, se correttamente segnalati dalla scuola, non si risolvono a scuola – e può accadere – la famiglia, prima agenzia educativa, potrebbe pensare anche in privato all’istruzione, senza attendere, quando si comprende che la scuola (nel caso) ha limiti. Posto che la famiglia ne abbia possibilità, ovviamente.
Ma ammettiamo il caso in cui il ragazzo sia del tutto normale, e magari anche un tantino più sveglio del consueto: eppure della scuola e dell’istruzione non gl’importa niente o gl’importa poco. Che fare, da parte della famiglia?
La famiglia, sempre concordando con i referenti scolastici, deve guardare se stessa per vedere che cosa, al suo interno, non funziona per quanto riguarda la comunicazione e applicazione delle regole, e quindi per quanto riguarda la regola-dovere della responsabilità del ragazzo nello studio.
Si sa, infatti, che viviamo in un’epoca in cui un ragazzo, anche quando vive in luogo isolato, non è affatto solo: piuttosto, è bombardato dai media e spesso coinvolto a tempo pieno nei circuiti digitali, telematici, satellitari del personal computer (facebook, twitter, messenger; e-mail, ecc; telefonia cellulare, sms, ecc.). Ora, la famiglia deve guardare bene se stessa e domandarsi: cosa non va? Nostro figlio appare mentalmente organizzato per quanto riguarda i compiti quotidiani di base, come organizzare e tenere ordinata la sua stanza, tenere in ordine e pulita la propria persona … e quali sono i rapporti di noi genitori tra noi stessi, che viviamo insieme o siamo separati, rispetto all’educazione di nostro figlio?
Infatti, un sistema di regole, come quello dell’educazione, in cui l’istruzione può rientrare, funziona quando viene coerentemente trasmesso e appreso. Se esistono discordanze gravi tra le figure dei genitori nelle modalità di trasmissione (p.e.: per uno l’istruzione è importante, per l’altro no; l’uno trasmette che si dovrebbe studiare, ma, per qualche motivo, non è presente né influente, e l’altro disattende il messaggio del primo – “non è importante” – oppure cede di fronte a un adolescente molto disorientato ma intelligente e deciso (può accadere!), ponendosi al suo stesso livello – chi è il ragazzo, chi è l’adulto? –; oppure i due sono in permanente conflitto per l’egemonia, e il loro sport preferito consiste nel distruggere quel che l’altro cerca di mettere in piedi, e allora si costruisce sulla sabbia), e ogni partita è persa. Si può presentare in tal modo un adolescente più o meno scombussolato (ragazzi che assumono atteggiamenti depressivi, anoressici, bulimici; ragazzi che depressi, anoressici, bulimici; ragazzi che assumono atteggiamenti di sfida verso gli adulti; ragazzi, in ogni caso, che assumono atteggiamenti controproducenti per la vita e per l’adattamento, perché certamente questi atteggiamenti possono venir compresi e corretti ma non vengono premiati in nessun caso, e quando lo sono – a causa di genitori o adulti incapaci di far intendere quali sono i ruoli in società e in educazione – va molto peggio).
L’adolescente avrà vinto quasi tutte le battaglie (di battaglie, quasi, si tratta, ogni giorno) ma avrà perduto, a media distanza, e in questi anni decisivi, la battaglia per la vita: si troverà senza competenze, di quelle che la scuola dovrebbe fornire, e, quel ch’è grave, senza motivazioni, a dipendere in eterno da qualcuno – le idee sempre confuse sulle priorità, e vaghi rimpianti, e accuse contro chi non seppe guidarlo – avrà perduto la guerra per la vita, la guerra per l’autonomia!
La famiglia guardi e curi se stessa: dove il sistema educativo non funziona, che i genitori vivano insieme o che siano separati, quando essi realmente amano il figlio, devono assumersi responsabilità, tra cui anche quella di curare la comunicazione all’interno della famiglia, e i mezzi non mancano: servirsi della consulenza di uno specialista serio (cioè un terapeuta specializzato nei problemi dell’adolescenza e del gruppo familiare), con atteggiamento di buona volontà a collaborare, può risolvere la questione, anche in tempi rapidi. Difatti si può mal vivere insieme, come si può essere separati bene: dal punto di vista educativo è così, rispetto alle responsabilità nei confronti di un figlio.
Ma la scuola cosa deve fare, che la famiglia funzioni, o che non funzioni?
A volte, l’insuccesso scolastico avviene anche a prescindere dalla famiglia. Si tratta di una famiglia normale, senza problemi particolari: allora i problemi li può anche inventare la scuola. Invero questo è un caso limite; ma diciamo che, in una situazione di famiglia così, con qualche difetto, in circostanze particolari (prof molto rigidi per esempio … ), la scuola fa da cassa di risonanza dei problemi che il ragazzo porta con sé. Ovvero, vi sarà pure una famiglia con particolari problematiche, ma non così gravi: ma queste vengono aumentate in maniera esponenziale a causa della confluenza dei problemi di quella famiglia con i problemi che porta quella scuola, con quei professori.
Quale è allora il ruolo, quali le responsabilità della scuola?
La scuola porta una tradizione pedagogica prima ancora e/o insieme alla tradizione-compito della trasmissione del sapere. Il professore, anche quello della secondaria superiore, non è soltanto il deputato alla trasmissione del sapere: egli incarna a suo modo, secondo le caratteristiche della propria personalità, anche un ruolo pedagogico in generale.
La scuola non deve – ma potrebbe – diventare un luogo di imboscate e di trappole per malcapitati. Succede troppo spesso, ancora, che qualche scuola – conformemente a una tendenza piuttosto facilmente espressa e pronunciata nelle idee attuali, per cui la scuola deve selezionare – misuri la propria “serietà” in base al numero delle ripetenze che decide. Non mi pare che sia il caso del nostro Istituto, in cui il numero delle non ammissioni, lo scorso anno, è stato alquanto basso rispetto al solito e rispetto alla media nazionale; e le ripetenze sono state decise in base a criteri molto chiari per tutti, non certo a cuor leggero. Ma resta un discorso, questo, irto di equivoci e molto difficile. In generale, la scuola deve promuovere – non l’alunno, né a tutti i costi, ma deve promuovere il processo di acquisizione delle competenze. Se la scuola sanziona una non ammissione alla classe successiva, anch’essa non è riuscita nel suo compito e se ne deve domandare il motivo: ribadisco, deve domandare ragione non solo alla famiglia, scaricando il classico barile, ma anche o in primo luogo a se stessa.
Veramente v’era impossibilità di entrare in quel ragazzo, in quella mente e di motivarla, in qualche modo? Che cosa la scuola non ha fatto, che cosa ha omesso e perché?
Semplici domande; non semplici le risposte. Si possono eventualmente vedere una vasta serie di omissioni e negligenze da parte della scuola, in questi casi. Non tutti gli Istituti risultano, come il nostro, dotati di strumenti diagnostici e prognostici che vengono perfezionati negli anni.
Tutto è perfettibile, s’intende. Ma la recente O.M. n.92 (2007) sulla valutazione degli alunni è un bel documento di spessore pedagogico, che riveste anche un chiaro significato operativo e regolativo dei comportamenti nella valutazione dell’alunno. Il fatto è che le scuole e gli insegnanti si ostinano a ignorarla, e spesso non sanno o fingono di non sapere.
Dice l’ordinanza che la valutazione nella scuola è un processo continuo; dice che e come va cercata e mantenuta comunicazione con le famiglie; dice che il ragazzo deve sapere, nel suo interesse, i risultati dei momenti del processo di valutazione, come le interrogazioni e i compiti; dice che le carenze vanno registrate e comunicate in maniera tempestiva. Lo dice e lo prescrive alla scuola, che deve attenersi.
E cosa avviene, invece?
Ricordo Romei, in un’indimenticabile occasione di discussione: brillantissimo come sempre, sebbene un po’ sarcastico (ma questo atteggiamento, per chi ragiona nell’interesse della scuola e delle famiglie, ci può stare tutto), egli ebbe a dire che alcuni insegnanti si comportano come se la valutazione fosse un bene di cui essi sono i detentori, con facoltà di dispensarlo e di decidere le sorti di altri a propria discrezione. Romei sapeva bene come stanno le cose e si impegnò nel cambiamento in modo serio; era uno dei pochissimi studiosi seri, efficaci e addirittura piacevoli da leggere ed estremamente attraenti quando era dato ascoltarlo A pensarci, quel che disse in quella occasione appare addirittura agghiacciante, altro che uno scherzo. Perché ad ognuno può accadere di sperimentarlo su sé e sulle persone vicine. Purtroppo questo anche oggi, nonostante l’impegno di Romei (p. e. in Guarire dal mal di scuola) e la letteratura – anche normativa – sulla valutazione, e nonostante l’impegno onesto di tanti insegnanti seri e capi d’istituto consapevoli, in molti casi resta vero.
Allora occorre guardare se stessi e guardare bene, prima ancora che vengano decise le non ammissioni, se si sono salvaguardati i diritti dell’alunno e della famiglia, che consistono nel fruire di una valutazione continua e trasparente: come dicono i documenti legislativi sulla valutazione, appunto.
E occorre allora, in casi di fenomeni come la non ammissione all’anno successivo, o anche in ogni caso di difficoltà, domandare: all’ingresso nella scuola e all’inizio dell’anno scolastico, l’alunno cosa ha avuto? La scuola cosa e come ha rilevato? E quando e con quale frequenza? La scuola, i professori del Consiglio di classe hanno compiuto rilevazioni opportune sulla situazione di ingresso dell’alunno, cioè delle sue competenze? All’inizio e dopo, nel corso dell’anno – l’alunno quale accoglienza ha trovato? Di fronte aveva un muro di incomunicabilità e di scarsa attenzione – oppure persone disponibili, ognuno s’intende diversi ma tutti intenti allo scopo comune, che era quello di intavolare un dialogo educativo?
Lo sappiamo che il mondo delle idee non abita sulla terra; ma c’è la normativa, ci sono comunque le idee, a meno che non abbiamo la zucca vuota, e come faremmo se appunto non avessimo idea, di volta in volta, di come fare, se non ci ponessimo dal punto di vista empirico del dover provare così e così in base all’idea che abbiamo della situazione, che senso avrebbe la scuola, che senso avrebbe l’istruzione?
Insomma, che ci stiamo a fare, se non siamo capaci di accogliere un ragazzo? Lo so che ci possono essere situazioni in cui ciò non è affatto facile, io stesso le ho sperimentate, negli anni di insegnamento, in classe; e ogni situazione è diversa. Ma a volte un ragazzo non aspetta altro che un mutamento lieve di atteggiamento, per collaborare: tant’è che l’atteggiamento chiuso e non collaborante del ragazzo può mutare in modo sensibile e positivo anche con un solo professore che lavora bene, purché questi lo coinvolga di continuo.
Durante il percorso, quante volte abbiamo provato a rilevare gli apprendimenti? Non ce lo hanno consentito i ragazzi stessi? Allora abbiamo parlato con la famiglia? Se lo abbiamo fatto, ma le cose vanno male, abbiamo cercato le cause? E poi, ancora, quante volte abbiamo chiamato la famiglia, quante volte siamo riusciti a parlare con i genitori, mettendo a punto con essi, come conviene tra adulti e persone mature, le cause, i rimedi possibili, le strategie, ancora una volta per farci un’idea e per trovare soluzioni?
Abbiamo dato al ragazzo e alla sua famiglia notizia tempestiva e trasparente dello stato degli apprendimenti, degli esiti della valutazione di qualunque tipo, oppure, come nell’esempio di Romei, i professori-sacerdoti hanno tenuto gelosamente custoditi i risultati, non li hanno comunicati e si apprestano a sacrificare ancora vittime nei loro riti per soli iniziati?
Di nuovo: ci siamo preoccupati di dire al ragazzo e alla sua famiglia cosa non va dal punto di vista dell’apprendimento, quali sono le carenze, quali le parti della/e disciplina/e in cui si è rilevata incompetenza e impreparazione; oppure se l’alunno abbia carenze dell’attenzione, o della durata della concentrazione, o di tipo linguistico, o di tipo logico, o comportamentali, o abbondanza di assenze, o di atteggiamento con l’adulto e con i coetanei, e forse più carenze insieme, o quali?
Abbiamo detto al ragazzo e alla sua famiglia che lei/lui ha bisogno di corsi di recupero, in classe o fuori, o di ulteriore studio autonomo, posto che ne sia capace: e abbiamo istituito e avviato i corsi, con i professori della classe, o della scuola, o con altri, non importa?
La valutazione quindi sarà stata produttiva come comanda il buon senso pedagogico, formativa o intermedia, infine sommativa o finale, oppure si sarà risolta soltanto in un coacervo incomprensibile di comportamenti del docente che valuta, un guazzabuglio di elementi che danno luogo a qualunque interpretazione e che sfociano in un risultato finale altrettanto incomprensibile, compreso il sospetto che s’intendesse “liquidare” dall’inizio questa scomoda pratica, questo ragazzo tanto fastidioso e problematico? In sede di valutazione intermedia – trimestre, quadrimestre – e finale, quali dati abbiamo realmente? Alla fine, potremo dire di aver agito in perfetta trasparenza e buona fede, al fine di “promuovere” le competenze dell’alunno, oppure avremo soltanto messo in opera un efficiente meccanismo sanzionatorio e discriminatorio?
Ecco: solo al termine dell’attenta analisi di un percorso, che è stato attentamente compiuto, e scandito in tutte le sue fasi, si può affermare che non ammettiamo alla classe successiva nell’interesse stesso del ragazzo (ma questo può essere vero ben poche volte!), oppure che ammettiamo al corso di recupero perché si può salvare qualcosa, o che ammettiamo aspettando l’eventuale maturazione del ragazzo, o che consigliamo (ma con cautela!) che il ragazzo cambi indirizzo di studi.
Scuola e famiglia devono collaborare allo stesso fine, che è la promozione del ragazzo, delle sue competenze, della sua personalità equilibrata, delle sue risposte giuste al mondo, alla vita. Perlopiù non lo fanno, o procedono ognuna per proprio conto.
Quello della scuola è un mestiere difficile, quello della famiglia non è un mestiere, ma, com’è noto, è compito difficile, forse ancor più. Se tuttavia niente, proprio niente di questo che ho cercato di descrivere sarà stato fatto, o troppo poco, né da parte della famiglia, né della scuola, lascio al lettore ogni giudizio sull’arroganza, sulla superficialità, sulla cialtroneria, sulla dabbenaggine, sulla competenza e sulla malafede del genitore e del professionista della scuola; sul fatto che l’alunno problematico sia vissuto dalla scuola come un caso da risolvere promuovendo competenze e rimuovendo ostacoli – nel senso migliore della letteratura pedagogica – ovvero come un fastidio da evitare, infliggendogli la sanzione prima dell’esclusione e del rifiuto, poi della non ammissione.
Nel migliore dei casi non c’è da stupirsi se il conflitto e il contenzioso tra scuola e famiglia aumentano. Nel peggiore dei casi, tutto tace e il ragazzo ne fa le spese. Quello del conflitto può anche essere il migliore dei casi, perché certe situazioni meritano conflitto rispondere per le rime, quando ci si esamina e ci si ritiene in buona fede, è nel buon diritto di ognuno: è difendersi, è proprio dovuto.
Sono uomo di scuola e me ne andrò dalla scuola orgoglioso di esserlo. Ma ne ho viste tante, sia da parte delle famiglie che della scuola, che non posso fare altro che schierarmi: dalla parte del buon senso pedagogico e dell’equilibrio! Ma il fatto è che proprio questi, di volta in volta, sono gli atteggiamenti più difficili da trovare e da determinare, nel concreto dell’azione.
Resta l’idea: la scuola è la soluzione migliore che siamo riusciti a inventare, è il frutto di più di duemila anni di riflessione e di metodo – e resta la fede filosofica – che l’umanità, dopotutto, sia in progresso verso il meglio.
In queste brevi considerazioni si è anche inteso salvare e riconoscere i meriti di chi lavora bene nella scuola. Sono veramente tanti. E abbiamo inteso riconoscere la giusta importanza al “mestiere” del genitore. Ma certi episodi a cui si assiste fanno veramente rivoltare. A scuola come in famiglia.
Può essere vero che i panni sporchi si lavano in famiglia. Ma certi panni sporchi suppongono una famiglia più allargata, che si chiama in tre modi: Società, Stato, Umanità.
Naturalmente facciamo sempre parte di una società, anche se talvolta tendiamo a dimenticarlo.
Ci onoriamo di servire lo Stato, perché pensiamo a quel che dovrebbe essere, e talvolta riesce ad essere, anche attraverso il nostro impegno.
Speriamo di essere considerati degni di appartenere all’Umanità.