... oltre le basse collinette dei detriti di sabbia
di cianfrusaglie e di rifiuti
mentre il treno scivola lento
accanto alla vecchia statale del lungomare
(Percorsi alternativi, p. 20)
Sgrètolati
come pure noi in questa città rotta ed assoluta
fatta per chi non sogna e non vola sopra i tetti …
io sono poca grazia di Dio tra questi condomìni indeterminati
e mentre ragiono del poco spazio concessomi
rimetto al cielo le mie mani …
(p. 15)
Mani hanno divelto lo steccato
che divide la città dalle ombre del giorno:
si cammina infatti nel circolo delle case e delle strade
senza sapere nulla di quel vuoto
che s’addensa ai parapetti e alle ringhiere dell’andare
(p. 50)
Mi sbaragliano per città smantellate d’ogni felicità (…)
mostrandomi l’altra faccia della luna
ma io contro ogni direzione
sfuggo sempre per la strada secondaria …
(p. 38)
Ho voluto guardare, oltre all’ultimo Congiunzioni e rimarginature, anche il precedente Percorsi alternativi/noi in cammino perenne verso il caso, (2013) e, in generale, tutta la produzione poetica dell’autore, che avevo in parte letto, anche attraverso il filtro della critica precedente. L’ho fatto volentieri, anche perché debbo dire che Vetromile è di certo uno di quei poeti che scrivono anzitutto per se stessi, cioè perché chiamati da motivazione interiore, anche se non gli dispiace certamente che gli altri parlino della sua poesia, e tuttavia si propone con enorme senso della misura: come è notevole la sua produzione poetica, così è, all’opposto, discreto il suo atteggiamento, e di poche parole, quasi timido e un po’ schivo. Ricordo l’episodio della serata di poesia alla cartolibreria Mancini da lui organizzata, in cui, avendo partecipato un po’ tutti ed essendo egli richiesto dal pubblico di leggere qualcosa di suo, ha gentilmente e con estrema semplicità declinato l’invito. Questo mi sembra essere lui, l’autore: una persona disposta piuttosto a spendersi per gli altri che per se stesso, come mostra la sua attività di grande organizzatore di incontri di poesia, a cui altri sono invitati a leggere.
Come fa poesia Vetromile, dal punto di vista tecnico? Un brevissimo cenno, che egli stesso fornisce: “mi raggomitolo in un verso libero/tenendomi la virgola a portata di mano/per non cadere dal rigo/in un abisso di parole ridondanti/crogiolo di future riaggregazioni” (pp. 62-3). Di fatto, nel testo non compaiono virgole né punti (ma sono presenti le maiuscole, e i due punti), forse per accrescere il senso della fluidità dei versi liberi; forse l’accenno alle “parole ridondanti” vuol riferirsi a quei “barocchismi inevitabili” che già dieci anni fa Nazzaro rilevava (Nazzaro, Poeti in Campania 1944-2000 , Marcusedizioni 2006, p. 173), forse al caos originario di parole sul foglio del poeta, poi ri-composto in poesia; lo stesso Nazzaro parlava della “forte tensione interna” della poesia di Vetromile, che a suo avviso dava risultato “lirico” (ivi, pp. 174-5), mentre io direi che, stando alla classica distinzione, la poesia di Vetromile è non meno racconto, si presenta nella forma del racconto, quindi epica, senza disconoscervi frequentissimi esiti lirici.
Dal momento che, con l’ultimo, Pino vanta ormai ventuno libri di poesia, mi sono in primo luogo domandato e ho domandato ai suoi testi cos’ha Vetromile da chiedere alla poesia. Mi pare che egli lo dica in modo chiaro, come rilevano anche altri: «Con la poesia si costruiscono ponti per l’aldilà […] Scegliendo un percorso alternativo, a casaccio, so che mi farò del male comunque, ma è quanto desidero: diversificare la mia strada, lungo la quale potrò vedermi, interrogarmi, sentirmi. E illuminarmi.» (Introduzione a Percorsi alternativi, p. 5). Il poeta cerca “probabili vie di fuga” (scrive Alessandro Carandente nella IV di copertina dei Percorsi): «A sera/un laconico senso di riscossa mi agita la biro/ … a dare un lume di speranza/al mio senso di qui …» (Percorsi alternativi, cit., Per vie di fuga, Incipit e Primo tentativo). D’altro canto, tormentata è anche questa strada, se « … mentre noi parliamo di parole … /a indicare l’orsa maggiore lontanissima/c’è un muto presentimento di distacco/:mai raggiungeremo l’orlo del creato/neanche con un verbo ricostruito ad hoc» (p. 33) e «In questi transiti provvisori ogni dire è vano». (p. 52)
Si tratta di un antico tentativo della poesia ma è anche il tentativo di tutta la poesia di Vetromile, che è , è stato detto, certamente di tipo poematico, ma che allora di potrebbe rappresentare, nel suo intero, come un poema unico, come una sola ricerca di percorsi alternativi e diversificati. E come stanno le cose nelle opere precedenti? Risalendo in modo attendibile nel tempo, mi affido anche a ciò che egli ne ha scritto oltre dieci anni fa Gian Battista Nazzaro nell’antologia Poeti in Campania (cit.), dal momento che egli ha letto almeno fino a quella data tutta l’opera di Vetromile dal 1979. Come Vetromile cerca di realizzare l’intento? Nel cercare obbedisco a presupposti per me abbastanza certi: in primo luogo cerco le immagini portanti della sua poesia, in secondo luogo guardo come quelle immagini si presentano (come fa Nazzaro parlando di «metafore … discorso analogico e … simboli di un che di specifico» (Poeti in Campania 1944-2000, p. 175), e insieme osservo cosa, quel «che di specifico» (Nazzaro: ovvero il significato delle immagini), secondo me, vogliono dire.
Non è il lavoro di un filologo, il mio, o da critico, ma neanche mi pare scorretto affermare che poesia è anche la storia dei suoi effetti in chi legge, e forse qualche volta, in questo modo, non si va lontani da una buona interpretazione. Risulta evidente una prima figura della poesia di Vetromile, che è la chiave religiosa, visibile fin dai titoli e in qualche modo presente fino a oggi: Io sono Zaccheo (1987), Resurrezione 88 (1990), Com’è lontana Gerusalemme (1996). L’afflato religioso, rileva Nazzaro, è al fine della salvazione dell’intero uomo (cf. Nazzaro, cit., pp. 173-4). Il fine è, come per la figura di Zaccheo arrampicato sul sicomoro, vedere passare il Cristo e quindi ottenere salvezza. (p. 175) Scrive Nazzaro leggendo il Cantico dell’uomo basso (1999) che trattasi della «ricerca di una speranza nuova per l’uomo basso che è tale solo nel senso dell’esser fermo nel suo quotidiano “lasciarsi andare”» alla ripetitività e all’inconsapevolezza (cf. Nazzaro, cit., p. 175). Una seconda figura, che coesiste con la prima, è quella del notissimo sfascio del territorio campano, nel caso soprattutto vesuviano, che è anche difficoltà nella relazione quotidiana con gli altri (il che, si direbbe, viene qui evidenziato in ogni modo ma positivamente affrontato da Vetromile proprio attraverso la predisposizione di ogni strumento atto all’espressione e alla comunicazione, attraverso il suo perenne, insieme discreto e smisurato ricercare gli altri). Una decina d’anni fa, quando lessi per la prima volta i suoi versi, essi mi colpirono e dissi a me stesso – questa è l’apocalisse riscritta oggi, e nel contesto del napoletano. Evidente che il paesaggio sia, in circolo, non meno paesaggio dell’esterno che dell’anima; interiore ed esteriore paesaggio, al contempo, e le immagini pescate dagli occhi e dai sensi vengono vestite, alimentate di sentimenti, di significati.
Come si presentano queste due figure fuse insieme della religiosità (cristiana) e della città/paesaggio?
In un modo abbastanza tormentato, direi:
1) la religione, che, nella figura di Zaccheo, dava luogo almeno a una speranza (come Zaccheo tra le foglie del sicomoro può vedere passare il Cristo così forse il poeta tra le parole può intravedere uno spiraglio, ottenere che la salvezza lo trovi) oggi è in una modalità presente ma molto diversa, tanto che Cinzia Demi nel suo sito on web ha potuto raffrontare il recente Percorsi alternativi all’indimenticabile Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni – al saluto disilluso d’un uomo colto, garbato, misurato, saluto che si veste delle immagini del treno e dell’ultimo viaggio, e l’uomo lascia la vita senz’aver nulla a recriminare o pretendere, tanto meno nutrire speranze ultraterrene: il paradiso non è tanto evidente nemmeno in Vetromile, almeno un dubbio c’è, se la vaga tensione a «raggiungere ovemai il paradiso» si frena dell’ avviso di «obbligo di catene a bordo» e si traduce tutt’al più nella ricerca poetica: nel «cautelarsi con attrezzi e scrivanie adatte». (Percorsi alternativi, p.31) Pertanto si legge, nella complessità di questa poesia, il tormento di chi non sa come finirà il viaggio, se «Una metà del cielo è aderente a Dio/l’altra metà collima con la terra/ e io tra le due calotte/ … / in quale metà cadrò?» (p. 44); ma anche è presente la possibilità, nelle angustie, dell’invano, se «Tu implori un Dio invano ora che il crepuscolo ricade ennesimo/in questo breve spazio a capoletto …» (p. 59): diviso com’è, l’uomo, tra la speranza inestinguibile e l’evidente incalzare del crepuscolo.
2) Ciò è tanto più forte in quanto l’altra grande immagine del paesaggio-città, dell’intorno, non esalta: ma, come ho detto, il contesto stesso si presenta così La coda del gatto che ronfa sornione accanto alla pozza di nafta … tra i muri caduchi della città vecchia i disseminati anfratti chiusi e riaperti come piaghe sulla pelle di palazzi anteguerra i sottoscala abitati da scatole e muffa i laghetti putridi tra i muschi di liquame del prato dissolto (p. 24) ovvero nella modalità della «città/decaduta/ … che mi sottrae la vita … /ineccepibilmente/ … dove non sto più a braccia tese verso il cielo/ma con gli occhi conficcati nella terra». (p. 46) Tutto sconcerta e continua a deludere, come nello sfascio delle conurbazioni così anche nella società e nello spirito degli uomini: La coda degli uomini davanti al tempo fermo dello sportello semiaperto il pubblico che fa domande di carte e riceve risposte d’aria il tram macilento a ritroso nella caligine e l’elettricità diffusa dappertutto anche negli occhi repressi dei passanti (p. 24) mentre, aperti gli occhi (ma anche con un po’ di ironia: in fondo non è del tutto così), si vede anche l’ingiustizia sociale ed economica. Si ha ben presente che, potendo, «Un millimetro più in là cambia il mondo/le rose sono più rose/ … /le pieghe dei pantaloni sono ben stirate/ … /basta allungare una mano nel cesto del creato/per trarne l’antica mela proibita/e il sogno dell’uomo: punto e daccapo». (p. 57) Infine, a causa di tutto ciò che precede si richiama alla necessità di stare in guardia, senza troppe illusioni, a «riprenderci un amore di terra/a non lasciarvi orma alcuna/che possa raccontare agli angeli la nostra pesantezza/di viandanti secondari.» (p. 54)
3) Ecco, direi che si disegna in questo modo il cammino poetico di Vetromile, nel suo complesso – se il percorso alternativo dà luogo a un aumento del conflitto e del tormento, si affaccerà pure la necessità di «ricucire varchi tra una stella e l’altra» (54) e già ci tocca «con mani d’ovatta/ … detergere le ferite del pianeta» (55). Appunto, è da tentare un’operazione di sapiente ricomposizione, di mediazione, ed è quanto viene cercato nell’ultimo Congiunzioni e rimarginature. (2015) Vetromile lo scrive nella breve pagina introduttiva: «Attingo una luce dal passato per mostrarla all’orizzonte … Ecco dunque le “congiunzioni” e le “rimarginature” (p. 5) ( … ) ancora “per dare un senso ( … ) non solo alla mia vita, ma anche a quella di coloro che mi seguiranno». (ivi) Rilevo che, mentre nei Percorsi veniva talora a mancare a volte la luce – qui essa si è riaccesa, più decisamente, come illuminazione per coloro che seguiranno e da parte di coloro che precedono, purché la possibilità, appunto, venga messa in chiaro. E tuttavia è luce che si rigenera per quanto è umanamente possibile e non può essere diversamente. E così, si percorre una breve galleria dell’evocazione, delle rimarginature di «fatiche del vivere sofferte da mio padre e da mia madre» e delle «congiunzioni con le loro ombre» nel sapere «che anch’io sono ombra» (Congiunzioni e rimarginature, p. 6) dalla semplicissima struttura: la rievocazione del padre (pp. 9-21), quella della madre ancor vivente (pp.23-35) e quella dell’autore, del «ladro di biscotti» (da p. 37 al termine).
a) Arriva a chi legge la suggestione dei componimenti che riguardano il padre, la sua semplicità consistente nel «credere soltanto a piccole gioie» (p. 11) e insieme la vena d’arte, l’essere estroso suonatore di clarino (p. 20) e spirito religioso (pp. 14-15) che grazie alla poesia è «reincarnato sulla mia pagina» (p. 18) e la cui eredità infine consiste nell’essere «ombra» a cui perviene il poeta: essere, alla maniera di Borges, ombra di un’ombra. (pp. 20-21)
b) O le rimarginature tentate rispetto alla madre ancor viva, ai suoi genitori che guardano «severi e torvi» dai ritratti appesi alle pareti, (p. 28) dagli sguardi «fieri e attenti», (p. 32) ai suoi «raccapriccianti amati» e ai «dolorosi fratelli», (ibidem) alla quale ormai «pare bello/tutto il tempo che resta». (p. 35)
c) Il senso generale del poemetto, benché il progetto sia di riconciliazione all’esistere, infine resta fermo sulla problematicità, anche quando si trascorre al tema dell’ “io”: quell’ «assiduo ladro di biscotti» ma anche di «ali d’angelo» (p. 37) che fu l’autore nell’infanzia mai del tutto abbandonata, sicché, sebbene si dica di sé «cammino sull’orlo della luna» è anche vero che «nessuna parola sull’uscio di casa mi accompagna e mi benedice». (p. 41) Infine – si presenta la risposta al tentativo di salvarsi: ma il «proverò ad arrampicarmi stanotte/per vedere se oltre i miei tetti/c’è ancora qualche tua luce nascosta» (p. 44) è il tentativo che, sempre rinnovato, viene contraddetto dal sapere che «il cielo è perso/ … /Mi hai detto/ho l’anima bassa/e non posso salire fino a te». (p. 44)
Allora Zaccheo è sconfitto, e questo è il risultato dei tentativi di quasi quarant’anni di poesia?
Ma non è così semplice.
La natura visionaria di continuo ribadita, fino all’esito surreale («crollerò alla prima morte condominiale/sbalordito sul pianerottolo e incredulo/che si possa così facilmente attraversare/l’abbaino/rovesciarsi nel nulla e/volare verso il centro del creato» – p. 54), di nuovo e di nuovo viene contraddetta dal richiamo all’avere «l’attimo felice in una tasca/e il dolore nell’altra», (p. 50) dall’avvertimento che il ladro di biscotti e al contempo di ali d’angelo si ritrova dove gli hanno detto d’essere, nullità terrena (cf. p. 48) destituita in fondo anche dell’ io (cf. p. 47) richiamo esistenziale all’essere esattamente dove ci si trova. (cf. p. 55) Ma le due componenti coesistono fino in fondo: eppure, eppure, si legge che sebbene «ineluttabile» il tramonto stesso «a due passi laggiù/ancora mi sorprende». (p. 21) Il cielo stellato, sebbene appaia nei Percorsi come equivocabile stellato, (p. 48) è e resta pur sempre una fonte perenne della poesia, e quindi «il sentiero di stelle/ancora e sempre/meraviglia». (p. 47)
Meraviglia: l’antica parola che, con lo stupirsi del mondo in cui siamo, negli uomini sempre torna. Ed è sempre vera.