09 Novembre

Analisi della poesia "L'infinito" di Giacomo Leopardi

Analisi strutturale de “L’infinito” di Leopardi (Itaiano, inglese)

(In occasione del bicentenario

de “L’infinito” di Leopardi, Biblioteca Comunale di Nocera Inferiore, 8 novembre 2019)

 

 

                                                 Povera et nuda vai…

                                               (Francesco Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, VII)

  1. Il concetto di infinito

Il concetto appare in Occidente con Anassimandro, che chiama τὸ ἄπειρον il principio, ἀρχή, il quale non possiede alcuna determinazione finita e non è limitato da alcun termine di spazio e di tempo. Zenone sviluppa le prime antinomie sul concetto, eppure (con Democrito, p. e.) nasce il convincimento che si possa discutere dell’infinito come di qualche cosa e trarne qualche conseguenza significativa: inizia qui la storia del calcolo infinitesimale.

Per Aristotele, l’infinito (spazio, tempo, numero) non è un’esistenza concreta, ma una potenza che resta sempre tale (Met., XI, 10). Il problema dell’infinito è stato da lui discusso in una maniera che rivela anzitutto l'influenza del matematico Eudosso. Egli distingue, con nomi appositamente da lui introdotti, l’infinito attuale (ἐνεργεία) e l’infinito potenziale (δυνάμιs). Una infinità attuale, cioè un Tutto costituito d’infinite cose date, non può essere pensato e perciò si deve dichiarare inesistente; invece, lo si può pensare un passo che ne richiede sempre un altro, o una serie di numeri crescenti oltre ogni limite, ovvero una serie di parti sempre più piccole ottenibili con la divisione d’una grandezza, ecc.; queste serie non sono mai date come un’infinità compiuta, ma sempre incompiute e prolungabili, perciò sono pensabili come infinite in potenza.

Nei diversi tempi, si è pensato diversamente al concetto di infinito ma sempre riconducendolo in qualche modo a una di queste classiche modalità, iniziate dai Greci e da Aristotele in particolare.

 

     b. L’ “infinito” di Leopardi e l’infinito dell’emozione.

Infinito attuale o potenziale, nei versi di Leopardi? La domanda non tiene, forse entrambi, eppure nessuno dei due in specie.

Intanto, nonostante l’ironia e l’ambiguità implicite nella dizione “analisi strutturale dell’infinito”, si può provare a condurre un breve esame di questa poesia, anche in questo senso.

                                     Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
                                     e questa siepe, che da tanta parte
                                     dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
                                     Ma sedendo e mirando, interminati
                                     spazi di là da quella, e sovrumani
                                     silenzi, e profondissima quiete
                                     io nel pensier mi fingo; ove per poco
                                     il cor non si spaura. E come il vento
                                     odo stormir tra queste piante, io quello
                                     infinito silenzio a questa voce
                                     vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
                                     e le morte stagioni, e la presente
                                     e viva, e il suon di lei. Così tra questa
                                     immensità s’annega il pensier mio:
                                     e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Certo, si può analizzare la poesia “l’infinito” dal punto di vista delle figure retoriche e stilistiche presenti e studiate, come abitualmente si fa: si tratta di un componimento di 15 endecasillabi sciolti, che si riallaccia alla tradizione poetica classica ma senza il vincolo della rima (gli endecasillabi sono “sciolti”, appunto).

Essa in realtà appare strutturata nel senso che è lavorata con seminascosti accorgimenti.

Ad esempio, dopo i primi tre versi introduttivi, nel momento in cui ha inizio l’esperienza sensoriale del poeta, l’uso del risonante gerundio di sedendo e mirando (v. 4); la menzione dell’ascolto del vento tra le fronde (“… odo stormir…”), l’uso del polisindeto con la ripetizione della congiunzione "e" dei vv. 5-6 (e sovrumani silenzi, e profondissima quiete... ), dei versi 11-13 (e mi sovvien l’eterno, e le morti stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei), quello dell’assonanza (o allitterazione) col suono “a” per dare l’ampiezza, “o” per la profondità”, “s” per la dolcezza del sentimento. Aggiungerei che altra figura retorica importante in questa poesia è l’enjambement (“scavalcamento” – del limite del verso), grazie al quale leggiamo i versi in modo continuo, senza pause, e tuttavia si dà rilievo a parole particolarmente significative, isolandole: per es., i versi “interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo”. Se Leopardi avesse voluto, avremmo i sostantivi presenti nella stessa linea, o verso, degli aggettivi che li accompagnano; se egli li stacca, un buon motivo dev’esserci.

Ma tutto questo non rende la poesia. Un poeta non fa poesia basandosi su artifici retorici, né un esperto di retorica è in quanto tale un poeta.

 

Il cuore di tutta la poesia pulsa invece nelle immagini o metafore, come siepe, vento, mare, a cui possiamo dare il significato che vogliamo, purché renda – questo sì, attraverso i traslati propri della metafora – un senso possibile. E nel come vengono usate: nello stile leopardiano.

Quali sono le metafore o immagini della poesia? Si tratta d’immagini povere dell’esperienza quotidiana, eppure significative per ogni uomo: immagini dell’esperienza sensoriale, dello spazio, del tempo.

Il tema viene svolto a partire dall’esperienza sensoriale: vedere/udire, siepe, guardando, colle, ascolto del vento… e l’esperienza sensibile si nutre dello spazio e del tempo, per dar veste ed espressione al nostro modo di sentire.

Immagini dello spazio; difatti i versi nascono dalla contrapposizione tra la percezione del qui (questa siepe, quest’ermo colle, queste piante) e dell’immagine d’ultimo orizzonte, segno della trascendenza terrena, nel senso dell’andare-oltre, che si ottiene non grazie all’immagine attuale dell’immenso, esclusa dalla siepe, e comunque come dice Aristotele mai possibile (se non a certe condizioni, in matematica), bensì grazie a quella offerta dall’immaginazione.

Nello Zibaldone Leopardi scrive che

L'anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vita si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario” (171, 12-23 luglio 1820).

Insomma noi possiamo recarci presso ciò che non è presso di noi, attraverso ciò che è attualmente presente: lo nota bene Guarracino (Guida alla lettura di Leopardi, Mondadori, Milano 1998, pp. 239, 240) che cita diversi luoghi dello Zibaldone in proposito.

Inoltre, immagini del tempo, in particolare nella seconda parte, dopo i primi otto versi – immagini indotte da quella, semi-materiale e concreta, dell’ascolto del vento. Il vento è figura del tempo (e anche nella tradizione, a maggior ragione, figura o immagine dello spirito, che soffia dove vuole).

Così dalla infinità dello spazio Leopardi apre a quella del tempo (Einstein non era ancora nato), come passato (“morte stagioni”) e come presente, quindi della caducità, e dell’eternità, comunque la si rappresenti.

Peraltro, nei versi viene chiaramente detto lo sgomento, esso stesso emozione, che prende l’anima, o il cuore (“ove per poco/il cor non si spaura”), sprofondando in questi argomenti.

La poesia da molti è divisa in due parti: nella prima (vv. 1-8), l’immaginazione viene sollecitata da un ostacolo, ossia dalla siepe che impedisce di guardare oltre l’orizzonte, quindi sollecita l’idea di un infinito spaziale, ovvero di spazi senza fine in cui regnano un silenzio e una calma così profondi da sembrare irreali. Nella seconda parte (vv. 8-15), invece, una sensazione uditiva, ossia il rumore del vento tra le piante, suscita l’idea di un infinito temporale, l’“eterno”, poi del passato, quindi del presente, “stagioni” dell’eterno.

In questa poesia si presenta un’esperienza personale e intima a cui Leopardi ha poi trovato le parole: è soprattutto in questo senso che la poesia di Leopardi viene chiamata “idillio” (a differenza che nell’idillio classicamente inteso, che si dice nasca con Teocrito, e che si riferisce a un quadro campestre, bucolico).

Come scrive Guarracino, citando Sapegno, Leopardi qui propone ancora e in certo senso risolve “la libertà e l’ingenuità d’una poesia dell’immaginazione, parallela alle contemporanee esperienze di un discorso sentimentale-filosofico, e continuamente insidiata e a tratti incrinata dall’insorgere dei motivi patetici e dall’insopprimibile, se pur repressa, coscienza di una realtà dolorosa” (cit., pp. 241-2); dolore dell’anima, che Guarracino vede rispecchiarsi nella “arcigna spigolosità soprattutto dei primi due versi” (p. 242) della poesia e, con sguardo attento al particolare, in un riferimento all’asprezza della condizione umana nei suoni-segni “ermo”, “esclude” e “spaura” (p. 242).

L’immaginazione, intesa nella tradizione di pensiero come facoltà d’immaginare o produrre immagini (che peraltro ci vengono attraverso gli organi di senso) procede “parallela”, secondo il brano di Guarracino, al “discorso sentimentale-filosofico” e all’ “insorgere dei motivi patetici” e alla “coscienza di una realtà dolorosa”; e direi che l’immagine, parallela o no, sta comuneue e sempre insieme all’emozione (o anche sentimento) che essa suscita e a cui s’accompagna.

Direi, visto il carattere intimistico di questa sua poesia, che l’autore stia riferendosi a un infinito attualmente vissuto, - e questo sarebbe il suo infinito, quello di tutti, di cui nessuno ha parlato alla maniera di Leopardi – che non è propriamente né dello spazio né del tempo né del numero ma dell’emozione e insieme – come è detto nella poesia stessa, nelle parole “mi fingo” – dell’immaginazione. L’infinito che sperimentiamo tutti nell’anima è quello delle nostre emozioni.

Einstein doveva ancora venire ma nemmeno Freud era ancora nato, eppure la poesia (e il pensiero) di Leopardi – e di altri autori – anticipa la formulazione di concetti che oggi vediamo non solo perché i grandi ce li mostrano, ma che corrispondono a cose che sono, e che perciò i maestri del pensiero hanno visto.

Metafore o immagini dell’emozione, dunque, che, come in ogni forma umana dell’espressione, stabiliscono analogie o somiglianze, dunque proporzioni (perché “analogia”, come ci dice Tommaso d’Aquino nella Summa, è non identità ma somiglianza in proporzione, anche tra finito e infinito, e lui intendeva tra Dio e creatura), e la proporzione analogica sembra qui la seguente:

                 siepe/colle:spazio:immenso, infinito = vento:tempo:eterno...

… e si potrebbe continuare: = morte stagioni, presente stagione: caducità… e inanellare altre componenti nell’infinita catena analogica, selva delle somiglianze.

Come sempre avviene, la poesia, strumento dello spirito, parte da immagini della nostra terrena, povera e comune esperienza, più o meno concrete, quotidiane, per aprirsi la strada dove vuole.

Lo stile di Leopardi utilizza le immagini in modo asciutto, senza una sola virgola in più; ma d’improvviso ci colpisce e sorprende con le parole, anche i superlativi che si affacciano sull'immenso e all’eterno, che in questo caso sono appropriati, per dire quel tutto, che è anche nulla. Gli artifici retorici sono usati in modo del tutto funzionale a quel che l’autore vuol dire: altrimenti essi non farebbero la poesia né analizzarla in tal modo ce la renderebbe.

Restano lo stupore e l’emozione che provoca questa poesia, davvero immensa: e insieme, stupisce l’apparente semplicità con cui Leopardi ci ha fatto provare, sentire l’immenso: guardare siepe-colle-ascolto di vento-mare… semplicità già notata da De Sanctis: “quelle ombre nella loro formidabile nudità” (cit. in Guarracino, p. 242) e da De Robertis, che insieme al De Sanctis parla di musicalità e di “arcane modulazioni” delle immagini di Leopardi (ivi, pp. 242-3).

Povera et nuda vai, poesia? Stupiscono la povertà come la verità della poesia, che in pochi versi e in povere immagini ci restituisce, in modo più efficace, breve e immediato di ogni prosa, in poderoso e nudo sentimento, la verità dell’esistenza umana.

                                     Nocera Inferiore, novembre 2019                                                                                                                           (Carlo Di Legge)

 

Structural analysis of Leopardi's "The Infinite"

(On the occasion of the bicentennial

of Leopardi's "The Infinite," Nocera Inferiore Municipal Library, Nov. 8, 2019)

                                                 Povera et nuda vai...

                                               (Francesco Petrarc, Rerum Vulgarium Fragmenta, VII)

  1. The concept of infinity

The concept appears in the West with Anaximander, who calls τὸ ἄπειρον the principle, ἀρχή, which possesses no finite determination and is not limited by any terms of space and time. Zeno develops the first antinomies about the concept, yet (with Democritus, e. g.) the belief arises that one can discuss the infinite as something and draw some meaningful consequence from it: here begins the history of the infinitesimal calculus.

For Aristotle, infinity (space, time, number) is not a concrete existence, but a power that always remains so (Met., XI, 10). The problem of infinity was discussed by him in a manner that reveals first of all the influence of the mathematician Eudoxus. He distinguishes, by names specially introduced by him, the actual infinity (ἐνεργεία) and the potential infinity (δυνάμιs). A present infinity, i.e., a Whole consisting of infinite given things, cannot be thought of and therefore must be declared nonexistent; instead, it can be thought of as a step that always requires another step, or a series of numbers growing beyond all limits, or a series of smaller and smaller parts obtainable by the division of a magnitude, etc.; these series are never given as a completed infinity, but always unfinished and extendable, so they are thinkable as infinite in potency.

In different times, the concept of infinity has been thought of differently but always tracing it back in some way to one of these classical modes, initiated by the Greeks and Aristotle in particular.

 

       b.Leopardi's "infinity" and the infinity of emotion.

Actual or potential infinity in Leopardi's verses? The question does not hold, perhaps both, yet neither in species.

In the meantime, despite the irony and ambiguity implicit in the phrase "structural analysis of infinity," one can try to conduct a brief examination of this poem, even in this sense.

                                     Ever dear to me was this lonely hill,

                                     And this hedge, which from so much

                                     Of the last horizon the gaze excludes.

                                     But sitting and gazing, interminable

                                    Spaces beyond that, and superhuman

                                     Silences, and deepest stillness

                                     I in thought pretend; where for a little while

                                     The heart is not swept away. And as the wind

                                     I hear rustling among these plants, I that

                                     Infinite silence to this voice

                                     I go comparing: and the eternal comes over me,

                                     And the dead seasons, and the present

                                     And living, and the sound of her. Thus among this

                                     Immensity drowns my thought:

                                    And shipwrecking is sweet to me in this sea.

Of course, one can analyze the poem "l'infinito" from the point of view of the rhetorical and stylistic figures present and studied, as is usually done: it is a poem of 15 loose endecasyllables, which harkens back to the classical poetic tradition but without the constraint of rhyme (the endecasyllables are "loose," precisely).

It actually appears structured in the sense that it is worked with half-hidden devices.

For example, after the first three introductory verses, at the moment when the poet's sensory experience begins, the use of the resonant gerund of sedendo and mirando (v. 4); the mention of listening to the wind in the foliage ("... odo stormir..."), the use of polysyndeton with the repetition of the conjunction "and" in vv. 5-6 (e sovrumani silenzi, e profondissima quiete... ), of verses 11-13 (e mi sovvien l'eterno, e le morti stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei), that of assonance (or alliteration) with the sound "a" to give breadth, "o" for depth", "s" for sweetness of feeling. I would add that another important rhetorical figure in this poem is the enjambement ("stepping over" - of the line limit), thanks to which we read the lines continuously, without pauses, and yet emphasis is given to particularly significant words, isolating them: e.g., the lines "interminati / spaces beyond that, and superhuman / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo." If Leopardi had wanted, we would have the nouns present in the same line, or verse, as the adjectives that accompany them; if he detaches them, there must be a good reason.

But all this does not make poetry. A poet does not make poetry based on rhetorical devices, nor is an expert in rhetoric as such a poet.

Instead, the heart of all poetry pulses in the images or metaphors, such as hedge, wind, sea, to which we can give the meaning we want, as long as it makes-this yes, through the translates proper to metaphor-a possible meaning. And in how they are used: in the Leopardian style.

What are the metaphors or images in the poem? They are poor images of everyday experience, yet meaningful for every man: images of sensory experience, of space, of time.

The theme is carried out from sensory experience: seeing/hearing, hedge, looking, hill, listening to the wind... and sensory experience is nourished by space and time, to give clothing and expression to the way we feel.

Images of space; in fact, the verses arise from the contrast between the perception of the here (this hedge, this lonely hill, these plants) and of the image of the last horizon, a sign of earthly transcendence, in the sense of going-beyond, which is achieved not thanks to the actual image of the immense, excluded by the hedge, and in any case as Aristotle says never possible (except under certain conditions, in mathematics), but thanks to that offered by the imagination.

In Zibaldone Leopardi writes that.

"The soul imagines what it does not see, that that tree, that hedge, that tower hides from it, and goes wandering in imaginary space, and figures for itself things that it could not, if its life extended from everything, because the real would exclude the imaginary" (171, July 12-23, 1820).

In short, we can go to that which is not with us, through that which is presently present: Guarracino (Guida alla lettura di Leopardi, Mondadori, Milan 1998, pp. 239, 240) notes this well, citing several places in the Zibaldone in this regard.

Also, images of time, particularly in the second part, after the first eight verses-images induced by the semi-material and concrete one of listening to the wind. The wind is a figure of time (and also in the tradition, a fortiori, a figure or image of the spirit, which blows where it will).

Thus from the infinity of space Leopardi opens to that of time (Einstein was not yet born), as past ("death seasons") and as present, thus of transience, and eternity, however one represents it.

Moreover, the dismay, itself an emotion, that takes the soul, or the heart ("ove per poco/il cor non si spaura"), sinking into these matters is clearly stated in the verses.

The poem by many is divided into two parts: in the first (vv. 1-8), the imagination is prompted by an obstacle, namely the hedge that prevents one from looking beyond the horizon, then prompts the idea of a spatial infinity, that is, of endless spaces in which reigns a silence and calm so profound as to seem unreal. In the second part (vv. 8-15), however, an auditory sensation, namely the sound of the wind among the plants, elicits the idea of a temporal infinity, the "eternal," then the past, then the present, "seasons" of the eternal.

In this poem, a personal and intimate experience is presented to which Leopardi then found the words: it is especially in this sense that Leopardi's poem is called an "idyll" (unlike in the classically understood idyll, which is said to originate with Theocritus, and which refers to a rural, bucolic picture).

As Guarracino writes, quoting Sapegno, Leopardi here still proposes and in a certain sense resolves "the freedom and naiveté of a poetry of the imagination, parallel to the contemporary experiences of a sentimental-philosophical discourse, and continually undermined and at times cracked by the onset of pathetic motifs and the irrepressible, if repressed, consciousness of a painful reality" (cit, pp. 241-2); sorrow of the soul, which Guarracino sees reflected in the "sullen angularity especially of the first two lines" (p. 242) of the poem and, with a close look at the particular, in a reference to the harshness of the human condition in the sound-signs "lonely," "excludes" and "is swept away ”, (p. 242).

Imagination, understood in the tradition of thought as the faculty of imagining or producing images (which, moreover, come to us through the organs of sense) proceeds "parallel," according to Guarracino's excerpt, to "sentimental-philosophical discourse" and to the "arising of pathetic motives" and the "consciousness of a painful reality"; and I would say that the image, parallel or not, stands communally and always together with the emotion (or even feeling) it arouses and with which it is accompanied.

I would say, given the intimate character of this poem of his, that the author is referring to a currently experienced infinity, - and this would be his infinity, everyone's infinity, of which no one has spoken in the manner of Leopardi - which is properly neither of space nor of time nor of number but of emotion and together - as it is said in the poem itself, in the words "I imagine" - of imagination. The infinity we all experience in the soul is that of the emotions.

Einstein was yet to come but neither was Freud yet born, yet the poetry (and thought) of Leopardi - and other authors - anticipates the formulation of concepts that we see today not only because the great ones show them to us, but that correspond to things that are, and that therefore the masters of thought have seen.

Metaphors or images of emotion, then, which, as in any human form of expression, establish analogies or similarities, hence proportions (for "analogy," as Thomas Aquinas tells us in the Summa, is not identity but similarity in proportion, even between finite and infinite, and he meant between God and creature), and the analogical proportion seems here to be the following:

                 hedge/hill:space:immense, infinite = wind:time:eternal...

... and one could continue: = dead seasons, present season:transience... and ring other components in the endless analogical chain, forest of similarities.

As is always the case, poetry, an instrument of the spirit, starts from images of our earthly, poor and common experience, more or less concrete, everyday, to pave its way where it will.

Leopardi's style uses images in a dry way, without a single extra comma; but suddenly he strikes and surprises us with words, even superlatives that overlook the immense and to the eternal, which in this case are appropriate, to say that all, which is also nothing. The rhetorical devices are used in a way that is entirely functional to what the author wants to say: otherwise they would not make the poem nor would analyzing it in such a way make it there.

What remains is the astonishment and emotion that this poem provokes, truly immense: and at the same time, we are amazed by the apparent simplicity with which Leopardi has made us feel, feel the immense: looking at hedge-hill-wind-sea... simplicity already noted by De Sanctis: "those shadows in their formidable nakedness" (quoted in Guarracino, p. 242) and by De Robertis, who along with De Sanctis speaks of the musicality and "arcane modulations" of Leopardi's images (ibid., pp. 242-3).

Povera et nuda vai, poesia? Astonish the poverty as well as the truth of poetry, which in a few lines and in poor images gives us back, more effectively, briefly and immediately than any prose, in mighty and naked feeling, the truth of human existence.

                                                                                                                                                   Nocera Inferiore, November 9, 2019 (Carlo Di Legge)

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