Intervento tenuto alla presentazione del libro "Questa maledetta vita. Il romanzo autobiografico di Giacomo Leopardi"
Ed. Olschki, Firenze 2016
Alla Biblioteca Comunale di Nocera Inferiore
Il 14 dicembre 2016
Dopo aver pubblicato la biografia sentimentale Leopardi. Le donne, gli amori, Raffaele Urraro ci ha regalato, in una edizione sempre prestigiosa, quest’altro libro molto bello, bene scritto e ben documentato, edito da Olschki, di godibile lettura, sulle condizioni di vita di Leopardi: appunto, questa maledetta vita, usando fin dal titolo l’espressione del grande poeta e filosofo.
Questo secondo lavoro, che risulta poco più consistente di quello; ma adesso, a cose fatte, è evidente che i due libri sono complementari, perché nel primo le condizioni materiali ed esistenziali in cui il poeta filosofo dové trovarsi nella sua esperienza dei sentimenti non sono ancora del tutto chiare, e qui invece le si porta nella loro luce drammatica, invero non per atteggiamenti enfatici di Urraro, perché egli appare, come sempre, vigile e misurato nella scrittura, ma perché i fatti, le diagnosi pur confuse e molto congetturali dei medici, le autodiagnosi del Leopardi, le problematica negatività dei suoi stati d’animo e del corpo (che a lui e a noi oggi non sembra cosa diversa dallo spirito) gli impedimenti a cui egli fu soggetto a causa delle difficoltà economiche pressoché continue nel suo girovagare per l’Italia – tutto questo ci offre, dopo l’immagine degli anni di formazione nell’isola felice della biblioteca paterna e dei sette anni di studio matto e disperatissimo, l’idea di un uomo di purissimo genio, di certo uno dei più grandi poeti e filosofi che il mondo abbia avuto, nient’affatto chiuso in torre a meditare e scrivere, quanto proteso a errare per la penisola, e in tale vagabondare afflitto dalle difficoltà di ogni tipo, che gli vietavano non solo una vita sentimentale piena, come risulta dall’altro libro, ma più radicalmente una vita. E lui, peraltro desideroso di una vita fino all’ultimo giorno, se ne prendeva come poteva, afferrava tutto ciò che gli squarci di buona salute gli lasciavano: fino a quanto viene descritto verso la fine del libro, come frequentatore, oltre e più ancora che dei circoli letterari, di via Toledo a Napoli (cfr. pp. 379 sgg.), si lasciava coinvolgere persino nelle giocate del lotto, e gliene veniva qualche divertimento, oltre che il forte rischio che correva a misurarsi con il popolo, dal prestarsi a dare i numeri delle giocate che le popolane chiedevano a lui gobbo e quindi portafortuna.
Ma tutto questo mi ha portato a domandare al libro di Urraro un po’ di cose da chiarire a me stesso, e che egli stesso, in qualche modo, si domanda nella conclusione (p. 421 sgg): come si può porre una relazione tra vita e opera, nel caso di Leopardi?
E bisognerebbe domandarsi in via preliminare: cosa diciamo parlando di vita – si parla di bio-grafia, scrittura della vita, o di vita come esistenza?
La questione sembrerebbe di immediata comprensione, se noi parliamo della vita (non della biografia) dell’autore: alla domanda se la vita corrispose all’opera, si risponde che l’opera fu senz’altro la miglior vita dell’autore e ne resta la miglior biografia. Salvo che la vita di Leopardi, come di qualsiasi uomo resta insondabile, e dunque la questione della corrispondenza vita-opera resterebbe nel mistero dell’esistenza dell’uomo. Ed è così, salvo per quanto si dirà tra poco.
Parlando invece di bio-grafia come descrizione della vita, ed è questo il caso, viene subito da pensare alla difficoltà, molto semplice ed evidente, per cui le parole non sono le cose. Dire della vita non è la vita stessa.
Ciò risulta assai evidente quando i resoconti e le descrizioni sono palesemente prevenuti per qualche motivo. Ma resta ancora problematico quando si tratta di biografie; pertanto, siccome la miglior biografia resta l’opera, ecco che il buon biografo, come Urraro, si rifà soprattutto agli scritti, alle lettere, alle tracce di vita.
E non può essere diversamente; ma allora si può trovare un resoconto abbastanza fedele e la concezione di scrittura che Urraro manifesta in più occasioni aiuta, perché la scrittura per lui non deve nascondere, ma deve cercare di mostrare. Anche in poesia.
Allora le parole, in qualche modo, corrispondono alle cose.
Resta la domanda: come si fa a risalire dalla biografia all’opera?
A questo punto, intendo liberare il campo da alcuni pregiudizi al proposito.
Voglio dire: come può non corrispondere l’opera alla vita dell’autore, in modo che sia, l’opera, la vita stessa, e viceversa?
Ma si deve cominciare a dire ciò che tale corrispondenza non è.
Sbaglierebbe chi credesse che la corrispondenza sia di tipo assai immediato ed evidente: non la vedrebbe. Si resterebbe del tutto disorientati.
Si vedano difatti i segg. passi del libro di Urraro: p. 202 (1828, giorni felici di Pisa – e l'opera: Il Risorgimento e (nientemeno che) A Silvia) ,
p. 250 ( ultimo soggiorno a Recanati 28-30: sofferenza e opera - “la sua salute peggiora … (lettera al Bunsen: non potrò finirla se non fra tre o quattro giorni”). Nonostante tutto questo, proprio in questo periodo scrive altri canti, Grandi idilli, che rappresentano, insieme ad altri componimento, le punte tra le più alte della poesia italiana: La quiete dopo la tempesta … Il sabato del villaggio … Il Canto notturno … ”),
p. 346 (Leopardi a Napoli: nonostante la dolorosa esistenza nella casina di Torre del Greco … Giacomo compose … La Ginestra e Il Tramonto della luna, segno che le gravi sofferenze dovute ai suoi tanti mali … non riuscivano a domare le sue energie intellettuali e creative”),
p. 386 (A Napoli nel 1835: che amava “più di quanto ammettesse esplicitamente” opere polemiche contro intellettuali napoletani ma anche fiorentini (La Palinodia … possono essere lette come il segno di quella libertà espressiva che nelle altre città non si era esplicitata)…
Ovvero: qui si dice che nel tal periodo, Leopardi scrisse quelle grandi opere. Invariabilmente, capolavori. Ma la questione è che i periodi erano anche molto diversi tra di loro, e talvolta le cose andavano perfino bene, come dapprima a Pisa o Napoli o Torre del Greco, salvo che Leopardi in ogni caso era inadattabile, e talaltra no.
Oppure sbaglia chi veda corrispondenza tra una vita malata e l’opera, come se la geniale grandezza dell’opera dipendesse dalla malattia. Tale sciocchezza l’ho sentita a proposito di Nietzsche, un ventennio fa era un luogo comune (ma non è fuor di luogo, sappiamo, avvicinare Leopardi a Nietzsche, più che a Schopenhauer). (Sebbene, a un livello più raffinato, la psicologia possa ravvisare certe rigidità sospette nel capolavoro – le letture psicoanalitiche, anche di Leopardi, non mancano: ma non tolgono all’universalità del l’opera).
Ma voglio dire che un capolavoro non necessita di un periodo di sofferenza per essere concepito e scritto, per cui nella serenità non c’è creatività; e nemmeno di un periodo di serenità o di felicità, per cui non si potrebbe fare nel dolore; ma può essere indifferentemente realizzato sotto ogni condizione d’esistenza, purché nell’autore alberghi, come si dice, uno spirito grande e magnanimo, che non si lascia piegare dal dolore e non ha bisogno del piacere o della gioia, ma sotto qualunque condizione sostiene il peso, per comporre grandi opere e non geremiadi.
Ecco: le corrispondenze tra condizioni materiali dell’esistenza e l’opera possono esservi e vi sono, e anzi non possono non esservi; ma chi crede che siano così automatiche, da doversi chiaramente vedere, non le vede.
Nell’ultimo capitolo, lo stesso Urraro pone il problema del rapporto tra Leopardi e la sua opera. Ma non può dirne l’ultima parola un medico, o lo psicologo, anche se alcuni indizi sono ghiotti per lo psichiatra o lo psicologo.. Pieri, studioso di patologia leopardiana, ha parlato (cit. a p. 422) di “virile e generoso pessimismo”. Ma già un altro specialista, un medico, Castiglioni (ivi) , conclude che la grandezza dell’opera non dipende dalla patologia dell’autore (sarebbe un tipo di riduzionismo), bensì “La sua personalità … costituisce il centro dell’opera sua.” (ivi)
Nessuna patologia lo fermò nella produzione, e non nell’autoanalisi. (p. 424) Come rileva Martone (p. 425), Leopardi era ribelle, curioso di ciò che merita, e non si adeguò a nulla. Questo mi sembra il punto. Anzi "un" punto.
Come riporta Urraro (p. 159), R. Damiani mostra nel suo L’impero della ragione il catalogo impressionante dei mali di cui soffrì Leopardi. Ma Leopardi fu tutt’altro che il suo misero corpo, se si vuol intendere che il corpo sia privo o alieno dalla dimensione dello spirito o che lo spirito incorporato (enbodied) si lasci vincere dal peso del corpo, o le sue difficoltà.
Egli fu sguardo potente e sottile e forza di vita.
La sua luce era il lume d’uno dei massimi uomini dell’umanità. Per questo motivo, quali che fossero le difficoltà affrontate, nulla poté arrestarne la geniale creatività, se non la morte. Sembrava un uomo insignificante, a chi non ne sapesse, ma chi l’aveva conosciuto e letto o ebbe la fortuna di parlargli attesta la sua grandezza. Bene, che sia stato così forte e determinato.
Si veda, per chiarezza, cosa ne dice il von Platen nel suo Diario. Egli a Napoli frequentò Leopardi e Ranieri. Si veda ciò che ne dice sulla immediata sgradevolezza esteriore, della difficoltà di vita di Leopardi e del piacere che infine restava nel conoscerlo. (p. 354 ma anche p. 373).
Certo che le difficoltà influiscono sull’opera. Come evidenzia Urraro, lo stesso Leopardi nello Zibaldone (cit. a p. 423) mostra d’essere consapevole, alla maniera di un nostro contemporaneo, della connessione tra lo psichico e il somatico, poi teorizzata dalla psicoanalisi, e della complessa mutevolezza e indeterminatezza dell’essere umano, della sua vita, anche nel corso della stessa giornata.
E, ragionando nell’ambito di questa luce contraddittoria ma irriducibile, che fu la sua forza (nel senso che la sua capacità di sopportazione fu davvero straordinaria, p. 421 – ovvero lo fu il suo legame alla vita), occorre passare, per poter vedere, da un altro punto, e tale punto è la risposta a una domanda: come l’autore vedeva le cose, entro la singolare esistenza che egli fu, similmente ma anche diversamente da ogni uomo, ovvero come gli si presentavano le cose, quali furono le modalità tipiche del presentarsi a lui delle cose, e quindi trovava le parole per dirne e scriverne.
La domanda sulla corrispondenza tra vita e opera unque resta e si precisa così:
- data quella sovrana competenza nel guardare al mondo,
- dati gli eccelsi strumenti espressivi di cui egli si era dotato nello studio,
- in che modo le asperrime condizioni di vita possono aver influito, e avere avuto un riflesso, sulle modalità tipiche sue d’intendere il mondo, e quindi nella grande opera dell’autore?
Così la domanda sembra più completa, e possiamo forse ri-cominciare a cercare, senza fine. Perché, dice Urraro concludendo il suo libro, Leopardi viaggia attraverso il tempo, ed è senza tempo.