Note su “Traum” di Francesco Maria Tipaldi - Ed. Lieto Colle, Como 2014
Traum, come “la vita è sogno”? Sarà reale, la realtà?
Se è sogno, non proprio un sogno gradevole. Eppoi, in fin dei conti, sarà una cosa seria?
La visione del mondo di Francesco Tipaldi qui in Traum appare quasi priva di quegli slanci e di abbandoni al sentimento che talora usano i poeti.
Quasi. Infatti m’imbatto in luoghi come questo:
“io t’amavo come s’ama il mai visto/il mai accaduto/avevi tutta la natura negli occhi/avevi fiumi, avevi alberi verdi” (40).
E alti, classicamente potenti, suonano i versi: “non ho idea di come si faccia ad arrivare/là dove m’attendi/siamo qui e/sono giorni e che è mattina presto noi non/ci sveglieremo, vedi/le cose cominciano a tradirsi e/noi cominciamo a svanire sui prati/come vapore.”(41)
In questa seconda occasione v’è già un che di inquietante, come l’incipiente nientificazione delle cose per come noi usiamo intenderle, ovvero come stabili, fisse.
Ecco, e poi se leggo “C’è qualcosa di te/che mi calza pennello…”, a p. 24, trovo una descrizione della carnalità, che non può lasciarsi andare alle delicatezze, ma consiste di una strizzatina d’occhio e di chiamate a complicità, perché l’io, scrivente o no, non è da solo su questa strada: “… lo sai … fiorellino… oh su lascia che… fa’ che…” (ivi).
Un dire s-canzonato a tratti: “cantami d’amore Jarmilka/che cantando una canzone meglio s’impasta il pane/meglio ancora poi se sia d’amore/la canzone”, con quel che segue… (20).
Qualche barlume di tenerezza si affaccia nei luoghi (diversi!) dove si tratta d’amore tra vivi e morti: “Se un giorno mi perdonerai per essere/morto, senz’avvisarti/animale selvatico/ti restituirò quel bacio…” (23), a patto d’essere avvertiti che “anima mia… /l’amore non c’avrebbe salvato/”, già, e anzi, se non era chiaro, s’abbassa ancora il tono sul finire: “l’amore mette le ortiche nelle mutande” (23); o si veda i versi a tratti struggenti “fingere lunghe passeggiate non farà bene/sarò via in eterno, amore/abbi cura dell’esercizio/della memoria/… non smettere d’aspettarmi…/io tornerò per sentirti respirare/ti bacerò come i morti sanno baciare i vivi” (senonché, infine,) “fabbricheremo saliva” (34).
Vista la strapotenza della morte, anche qui amore, come suole nelle migliori famiglie letterarie, non ne è quasi quasi mai scisso, ma alla maniera di Tipaldi: “siedi con me, cosa vuoi che /importi/se la morte ti germoglia sulle mani/o sul viso/io ho il nulla sul letto/…la vita è graziosa/noi avemmo il privilegio di non durare…” (36); oppure “Puoi leccarmi.../ma non è modo d’amare/il nostro/noi dovremmo fare un figlio” (e quindi sembra un riverenza al modo d’intendere dei più, ma sùbito segue lo sberleffo:) “noi dovremmo/ dare pane alla morte/… e tanto dovremmo lavorare/che lo sperma/ è un esercito scemo/e la pancia è una verza”(25). E, si aggiunga, amore è anche paura: “la paura è il nostro caldo rifugio/è quello che abbiamo/e che i morti c’invidiano/ (teniamoci stretti)” (42).
Non si può negare qualche distrazione verso l’alto: così ci si trova d’un tratto in un oltre, in un “luogo immenso dove tutto/divenne sacro/e noi eravamo parte del chiarore/e nessuno ci avrebbe parlato per l’ultima volta” (37), dove sembrano presenti, ancora una volta, noti gesti medioevali di “metafisica della luce” come pensiero/immagine della destinazione e della provenienza dell’uomo.
Ma infine gli slanci che qui si vedono privilegiati sono quelli verso il basso, si dice chiaro e tondo che non c’è da farsi illusioni: come questo poeta molto metafisico e poco più che trentenne abbia visto e saputo tale parte del tutto della vita, inutile domandarsi. Occorre prendere atto.
L’Angelus, topos malinconico e privilegiato dai poeti, che sta per il rientro dai campi in fine del giorno, è il titolo che principia il libro, ma la poesia inizia con il “Via dai culoni delle contadine” (15), come dire “via da ogni illusione su ciò che i poeti ritengono poetico”: i poeti, pertanto, non lo nominerebbero mai in questo modo, “culoni”, ovvero non ne tratterebbero affatto, o lo farebbero con la debita grazia.
Altro che “la donzelletta vien dalla campagna”!
Cosa è ciò che i poeti ritengono poetico? Tutto l’infinito mareggiare del mondo dei sensi e dei colori che appunto, in essenza, è pur sempre il nulla in parola: ma eccolo, nei versi “io lo so che verrete/madre/il nulla ci mangia nella mano/come fosse un cane” (47) come è “il” nulla, appunto, che “spaventa i bambini nelle piazze” (53) e con cui, a ragion veduta, si conclude il libro: “o ancora si tratta del nulla, quello con cui i poeti/vanno fuori a giocare” (73).
Gli altri sono poeti del nulla, nel senso che sul nulla essenziale della vita stabiliscono il mondo del sensemaking e delle rilevanze; Tipaldi non vuole. Non vede così. Non è il solo, e lo fa a suo modo.
Tipaldi è poeta del nulla, nel senso che egli mostra il nulla di tutte le cose, e lo fa in modo assai irriverente e beffardo, o ironico, a tratti. Scrivendo anche da molto vivo, dal momento che si esprime anche in versi delicati e decisamente belli.
Ma qualcosa lo porta a privilegiare altro, della visione dell’esistere.
Forse un impianto criptoreligioso, o fors’anche d’una spiritualità da critica della ragion cinica del XXI secolo, da modulare come epigono del libro dell’Ecclesiaste, canto delle vanità della vita, o sulla linea della medioevale bolla di Innocenzo III papa e titoli altri di clima affine come quello di Bernardo di Cluny, il De contemptu mundi. Il disprezzo della vita e del mondo, che fa anche caricatura e sarcasmo; che di desolazione, fa disprezzo.
Si veda a p. 43: quel chiaro sentore di lento disfacimento, di morte in lento progresso, che emana dalla poesia “tornai… / qualcuno rispose nel modo/cattivo – la sua testa penzolava sulla schiena/come un sacco/di prugne/– ma ti trovo bene! (mentire)/la casa squagliava/nessuno raccolse le mele nel prato/per anni e anni e anni…” e la crudezza della maggior parte dei versi, come alle pp. 44, 45-6, e 47, o il soliloquio sul come sarà dopo, a p. 48, quasi a cercare una consolazione, come un pre-pararsi al/nel pensiero (p. 49); e la coniugazione tra sesso e morte, con molta ironia, a p. 51.
Intendo solamente seguire il filo di alcune parole chiave, per poter ritrovarmi all’altezza “rasoterra”, come dice Cucchi in Prefazione, di questo sentire. Per farlo, occorre seguire di continuo il filo asciutto dei versi, secondo quelle parole, per tutto il libro.
La campagna, le bestie. Perché la campagna è per eccellenza la terra, ed è quel che siamo. Dalla prima poesia dove “le grida del parto,/le carissime doglie” (della terra) da cui nasce nientemeno che “la verzura” (e cos’altro si vorrebbe?) si mescolano sùbito con “Sia lode alla molli latrine dei maiali” (15); dove l’ironia passa sùbito nel comico e nel grottesco, in cui torna e circola riducendosi il tragico: “Da quando i maiali l’hanno caricato…/il poveruomo è diventato demente” (17); “il maiale venne subito acciuffato/la sua fuga fu poco ragionata/fu un trionfo di sangue… “(22); “La signora con le mammelle sull’ombelico/aveva il collo e le caviglie/dei suini”(71). Maiali, dunque, e (meno) vitelli; o i cani: irresistibile, brutalmente elementare, l’accostamento contadino-cane-feci (“Nonostante il contadino urlasse/il cane continuò a defecare…” (26); “quando scoprì che la cagna era incinta/morì dal dolore” (16); o “passarono i cani veloci al massimo” (27), “uscivamo nel verde/come i cani di notte”; “sotto l’albero di limoni passava il mio cane morto” (43); e i cani di Gesù “sono cafoni” (68) perché defecano sui prati dell’apocalisse, mentre i gatti di Traum compaiono maltrattati, ma per loro fortuna solo una volta: “i gatti sono persone cattive”, 45.
Insieme a terra e campagna, e animali, quindi, le feci e gli escrementi: il programma così enunciato viene rispettato, è triviale in progetto, sì, ma non esattamente volgare, anzi colto e sorvegliatissimo: addirittura il tema delle feci molli s’inserisce nella suggestione biblica (“L’uva fragola sarebbe stata causa di enormi/terribili diarree/Lo sapevano Nahum e i profeti tutti”, 18).
Caos dell’inconcluso contesto di slabbrate membra, di sentimenti deformi, di corpi corrosi e insidiati (“qualcosa consumava/le gambe degli uomini”, 30), a cui il verso s’industria di dare dimensione: nelle sterminate campagne nere della notte e negli orizzonti corruschi dell’inane trascendenza, che, per quanto senso io vi possa dare, rimandano a niente. Il tema della terra, che in essenza sempre io stesso sono, va anch’esso insieme con quello della morte, in visione a tratti naturalistica e fisica, scientifica ma ironicamente leziosa: “nella terra una bara di noce, …/e la morte era questo calore passato ad altro/questa forma silenziosa di lavoro” (30); o si veda “aveva lasciato sulla terra l’ultima/gloria del corpo/” con quel verso “(La sepoltura sottrae bellezza”, 19), che è deciso sarcasmo.
Così è provocatoriamente ironico “quella non fu una giornata/pregiata/… fu molto morto (Sic!) Angelino /… dove si trova adesso/il cortisone è un fiore” (21).
La morte mi riporta a ciò a cui, secondo il frammento di Anassimandro, poiché ne siamo venuti, torneremo: “fu morto come prima…/dei laghi di Garda e delle rane/nei laghi” (21).
E nella morte, un sentore lercio e un po’ malmesso di sesso, e doppi sensi: Angelino fu morto, “come prima che il padre e la madre/facessero cose” (21), s’intenda quali cose, e, mentre il maiale viene preso e malamente muore ammazzato, “la signora mungeva i ragazzini/sulla salitella”, o anche “seguirono fatti fortemente sessuali/ebbero moneta” (51): tutto continua, lo sgangherato goffo e bieco tramestio della vita prevarica la morte, è così, morte che in circolo retribuisce la vita, trovare le parole per dirlo.
Un monito a un altro come a se stesso: “sii lontano,/sarà l’universo a preparare le terre/le droghe non funzionano/con i morti./serve verde, servono laghi”(57).
Talora con esiti surreali, alla Chagall: “nessuno ci aveva avvisato/noi non siamo ancora pronti/non lo saremo, madre/la porta è aperta, il gallo vomita teste”(58, ma cf. anche 56).
Non bisogna tentare di spiegare la poesia, si sa, è sia stupido che impossibile provarci, e nemmeno va bene domandarsi, in questa sede, perché il poeta veda così.
Tocca provare ad entrare nel congegno unico della sua visione, per descriverlo. Mettersi nell’altro modo, mondo di un altro.
Questa volta è più dura.
Perché bisogna farci i conti: come interagisce il mio mondo con quello dell’altro?
Il libro, date le premesse non contraddette da qualche isolato episodio, non può che concludersi in tentati requiem, che poi sono figure di anti-cripto-spiritualità di cui ho detto, della nera apocalisse: dalla ironica icastica riscrittura della resurrezione (65) alla riscrittura del passaggio che è la morte (66) e del disinganno della scrittura, come di quelli della felicità e della salvezza (67).
A proposito di “Ira di Dio”, non può mancare il sarcasmo rispetto a Gesù che, in corso d’apocalisse, s’imbratta di feci di cani cafoni passeggiando per i prati e così “strusciava/furiosamente/la scarpa nell’erba…” (68); né la sguaiatezza verso le “fottute trombe” (69); fino alle visioni d’incubo (e di teologia negativa) della notte nera e del mare rosso di sangue rappreso, e di angeli-rapaci-vampiri che “afferravano i bambini/come topi” (70), puro horror, ma che diviene serie d’ipotesi realistiche nel finale (72-3: “assistere a un’apocalisse/significherebbe assistere al compimento,/all’amore dell’amore – uomini vivi o uomini sognati/questo è il rifugio che Dio stava preparando per noi,/uomini e bestie/oppure è il tanfo della natura che si rigenera/e ancora si tratta del nulla, quello con cui i poeti/vanno fuori a giocare”).
Chiudendo: di tale privilegio dato, che è dopotutto l’assistere all’apocalisse, “se solo sarete coscienti, abbiatene cura” (73).
Come dire che l’essere più autentico dell’uomo è essere-per-la-morte. Ma centrale, nell’esistenza, è la dimensione dell’aver cura. Se potete: e forse non è serio, dicevo.
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“il nucleo del sole esplodeva all’esterno
feroce
passarono i cani veloci al massimo e fu subito giorno
di nuovo, gravità: qualcosa tirò a terra l’enorme
contadina
le api le annusarono l’ano e i seni
ebbero miele
pregiato le api – per sempre – la primavera”
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“… sarò via in eterno, amore
ma non smettere d’aspettarmi
sono abbastanza vicino per sentirti respirare,
ma anche abbastanza lontano
perché tu non mi senta
fingere lunghe passeggiate non farà bene
io tornerò per sentirti respirare
ti bacerò come i morti sanno baciare i vivi
tu non smettere d’aspettarmi…”
“Non ho idea di come faccia ad arrivare
là dove m’attendi
siamo qui e
sono giorni che è mattina presto noi non
ci sveglieremo, vedi
le cose cominciano a tradirsi e
noi cominciamo a svanire sui prati
come vapore”
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“dicono sia la morte questo senso
di spossatezza
questa stazione zuppa
di mosche
si dorme quasi sempre
uno sull’altro,
sui corpi fiorisce l’edera di casa
– io lo so che verrete
madre
il nulla ci mangia nella mano
come un cane”
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“… la terra ranosa era un bollente
girare ed il mare
era sangue rappreso, passata di pomodoro
l’Agnello liberava brucava
umanità
la luce era buio
totale
e la luna incipriava i già morti
e gli angeli afferravano bambini
come le aquile i topi”
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“… – figli miei, voi avrete la fortuna di assistere a un’apocalisse
Significherebbe assistere al compimento,
all’amore dell’amore –
uomini vivi o uomini sognati
questo è il rifugio che Dio stava preparando per noi,
uomini e bestie
oppure è il tanfo della natura che si rigenera
o ancora si tratta del nulla, quello con cui i poeti
vanno fuori a giocare
se solo sarete coscienti, abbiatene cura”.