“Amen” – di Francesco Carbone
Allo Studioventuno di Salerno sabato 2 novembre 2013
La sera del sabato 2 novembre, al Studioventuno in via delle Botteghelle e Salerno, ha avuto luogo l’annunciata proiezione del cortometraggio “Amen”(circa 5 minuti) creato da Francesco Carbone, con la partecipazione di Daniela Lunelli (“Munsha") in veste diperformer e musicista (autrice anche della efficace musica che accompagna la proiezione) e con la voce di Carlo Roselli di Teatri sospesi. La serata ha avuto conclusione, dopo la doppia proiezione e il coinvolgimento degli spettatori le cui mani venivano simbolicamente “legate” all’indietro, ancora, con la bella performance – musica e parole – di Daniela Lunelli.
Il film di Carbone, che aggiunge un altro prodotto di qualità alla serie dei suoi lavori, mantiene senz’altro la promessa dell’essenzialità di cui ai depliant, tenendo fede alla pretesa anche dal punto di vista formale: ovvero l'intento di presentare un messaggio senza retorica, nella sua secca nudità, e, senza accanirsi nel voler essere sgradevole, nulla concede al bello o al gradevole. Le parole e le immagini risentono della liturgia della religione cattolica senza ricalcarne in particolare – salvo qualche immagine dell’eucarestia – alcun momento. Ma l’evidenza del legame del cerimoniale e dell’ideologia della Chiesa con la presenza dei concetti di colpa e peccato, frustrazione e condanna, si presenta in modo molto chiaro. La musica e il corpo o meglio la schiena vivente di Daniela, risultano eloquenti.
La sequenza presenta dunque immagini del corpo della performer: La nuda schiena e la nuca, il profilo sempre in soli bianco e nero, con una colonna vertebrale tatuata e come esposta, sulla pelle, anziché nascosta com'è in realtà sottopelle: schiena che rapidamente, senza indugi si presenta (all’inizio in pieno, poi del tutto china in avanti, poi viene ripresa di nuovo in primo piano) e pone forse in risalto, anche attraverso contrazioni, vibrazioni e pulsazioni, che il corpo, sebbene “mortificato” e punito (le mani sono legate dietro, talvolta le braccia aperte, o a volte al di sopra della testa), resta qualcosa di vivo e percorso da impulsi refrattari, alieni alla costrizione. Ma, quando si accetti di venir legati, la forma della prigionia viene introdotta nella vita, e ciò può anche avvenire attraverso una liturgia che all’apparenza redime e salva, in realtà – almeno nel film e secondo il breve testo che viene letto in accompagnamento – giudica e condanna, in base a una scala di valori che il tempo e il pensiero dell’Occidente hanno provveduto a scalzare, ma in modo non certo definitivo: in qualche diversa velocità del tempo, come in qualche ambito delle nostre menti, o delle geografie antropologiche e culturali, quel tipo di morale religiosa continua a funzionare, allo stato endemico, e qualche volta viene allo scoperto.
L’ennesima provocazione verso la religione cattolica, direbbe qualcuno; e direbbe che fare questo risulta abbastanza facile, perché oggi in Occidente, per chi si muove fuori dalle Chiese e dai loro circuiti di potere e influenza, non c’è molto da temere. Vorrei allora solo aggiungere che il film di Carbone non vuol essere, almeno a mio avviso, un’offesa al sentimento religioso in generale, essendo il suo bersaglio un altro, e cioè l’integralismo religioso: anche questo non lo invento, è detto in modo abbastanza chiaro nel manifestino di accompagnamento. L’invito che vale, a mio avviso, in un’epoca in cui il sacro, dopo aver conosciuto il suo declino, tende a rivivere, è, in un modo scarno e severo, incisivo nel messaggio come nella forma scelta, di tenere gli occhi aperti e la ragion critica in azione verso ogni forma di sonno della ragione, perché non nascano mostri – intendendo per ragione qui il pensiero emotivo nella sua complessità. Non indulgere a ogni abbandono all’irrazionalismo, che, sempre in agguato di fronte all’enigma del mondo e alla possibilità dell’insuccesso e alla certezza dell’ostacolo in esistenza, finirebbe col precludere la possibilità stessa della vita: il pericolo è in noi stessi, verso di noi stessi occorre vigilare, più che verso l’esterno.
La finale performance di Daniela Lunelli è per me stata una gradevole sorpresa, perché non conoscevo lei né il suo valore d’artista. Daniela ha interessato un pubblico folto ma forse non uniforme, cioè non del tutto preparato alla musica elettronica e alla esibizione vocale cui Daniela, specialista di violoncello ma non solo, ha dato luogo. La consolle elettronica, così, opportunamente gestita, ha offerto per circa 40 minuti la composizione di Daniela, strutturata di “basi” ed effetti studiati e mixati, secondo un piano che lasciava poco all’improvvisazione eppure dava l’impressione di una gran libertà oltre che del piacere di suonare e di accompagnare il suono con la voce, in variegate modulazioni.