Angri, 18.4.2015 Alla ricerca della felicità.6 La felicità omologata Già nel 1835 Alexis de Tocqueville prevedeva i futuri scenari sociali e politici: "Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri". 1) Descrizione iniziale: il consumismo è l’omologazione della felicità. Leggo e parafraso da una qualunque pagina on web sull’omologazione. Cos’è consumismo? Viene definito come il bisogno cronico di acquistare continuamente nuovi beni e nuovi servizi, con scarso riguardo all’effettiva necessità che si ha di essi. Il consumismo si può paragonare a una specie di compulsione a desiderare, a spendere, a consumare. Esso in genere viene considerato come una fase storica di omologazione della felicità, nel senso che – si dice – nell’epoca dei consumi si ritiene che essere sia consumare, e che consumare renda felici, rimpiazzando i bisogni dettati dal buon senso: la necessità di una famiglia stabile, di una vita in comunità e di sane relazioni umane. Siamo ormai abituati a non vedere il consumismo interferire nelle nostre scelte o nella nostra vita sociale, sebbene siamo abituati a parlarne e a sentirne parlare. 2) Ambiguità di queste formulazioni. Anche la critica all’omologazione è omologata. Considerano l’umanità come masse incapaci di intendere e di volere. Sembra che ci sia qualcosa di vero, a giudicare da ciò che si vede; ma non del tutto. Come non incorrere, allora, nell’omologazione dell’omologazione? Considero due aspetti della critica al consumismo. - Il motivo del tempo presente. Leggo: la vita al presente ha sostituito le aspettative del futuro storico. Ma l’attenzione al presente si può considerare almeno sotto un paio di aspetti. Il primo è che non c’è tempo per attendere, mai: si vuole tutto e subito. Ma tutti sanno, salvo chi on intende più sentire ragioni, che questo non è un buon atteggiamento, e tanto meno lo si può incoraggiare in chiunque. Non sempre. Ma il secondo consiste nell’invito a fruire opportunamente del tempo, che si offre sempre come presente: l’uomo a venire saprà usare opportunamente ogni suo presente – questo lo dobbiamo augurare a noi stessi e a chi viene. Saper usare il presente, dunque, resta una indicazione valida. Il fatto è che, spesso, non sappiamo vivere nel presente quando dovremmo – e non l’opposto, come se noi sempre sapessimo farlo. - Il motivo del consumo di identità personali e di vite, sempre insoddisfatto. I mercati, come spiega bene il sociologo Zygmunt Bauman, “coltivano un perenne scontento verso l’identità acquisita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio”. Ora tuttavia anche questo motivo si può considerare sotto più aspetti: quello della critica (omologata) al consumismo e quello del buon senso. a) Per non confondere, intanto: altro il consumatore e la compulsione indotta a desiderare, altro la collezione: perché il collezionista che se lo può permettere non dovrebb’essere felice? Perché non dovrebbe collezionare? b) certo che la felicità non si trova nell’imperativo compra-e-getta, certo che non si tratta di acquistare nuova identità, sempre di nuovo nuova vita. Esempio: M.me Bovary due secoli fa!). Oppure il don Giovanni di un qualsiasi autore che si sia occupato dell’argomento. Oppure anche il don Juan al femminile, perché non credo manchino oggi equivalenti, potendo. , dunque, e miti che non si limitano alla società post o ipermoderna. Il desiderio non è soltanto qualcosa di pervertito senza rimedio nel contesto dell’iperconsumismo: di base, resta una componente indispensabile dello spirito. c) Ma perché l’uomo che non è soddisfatto non dovrebbe desiderare nuove vite e nuove identità? Mito di Ulisse. Ma perché l’uomo si dovrebbe inibire il desiderio se questo è componente vitale? Perché costruire la rassegnazione? Bisogno e desiderio: ma il desiderio è, e può divenire esso stesso un bisogno. Nessuno è tenuto a continuare relazione con una persona o una identità quando ciò risulta impossibile. Semmai occorre tentare di guardare bene prima di iniziare e vedere bene di salvare, quando la relazione è istituita. Ma non c’è un divieto divino o tassativo di cambiare, che non sia dettato da motivi (che possono essere sbagliati) di etica religiosa e confessionale. La seconda rivoluzione industriale, la caduta del muro di Berlino e il conseguente crollo delle ideologie sono senza dubbio fattori della trasformazione del primo consumismo: nella società postmoderna il consumismo è diventato iperconsumismo … ma si tratta di tendenze generali della società, e nella mente degli uomini restano spazi divergenti rispetto alla pretesa omologazione. Penso al brano iniziale di de Tocqueville: egli è profetico, come spesso accade, nella descrizione del futuro. Ma trovo, invece, non sul versante delle scienze umane e socio-politiche ma delle neuroscienze, l’ultimo capitolo del libretto di Rovelli (C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano 2014, 77-80). Egli parla qui di neuroscienze e quindi di biologia, di cervello e di eredità; ma si può applicare quel che’egli dice anche alla società, in qualche misura, e alle sue influenze sulle scelte del singolo (Damasio lo dice espressamente: lo prevede). Leggo: "C’è una questione in particolare, riguardo a noi stessi, che ci lascia spesso perplessi: che significa che siamo liberi di prendere delle decisioni, se il nostro comportamento non fa che seguire le leggi di natura? Non c’è forse contraddizione fra la nostra sensazione di libertà, e il rigore con cui abbiamo ormai compreso che si svolgono le cose del mondo? C’è forse qualcosa in noi che sfugge le regolarità della natura, e ci premette di torcerle e sviarle con il nostro libero pensiero? No, non c’è nulla in noi che sfugge le regolarità della natura … tutta la scienza moderna … non fa che rafforzare questa osservazione ... La soluzione della confusione è un’altra: quando diciamo che siamo liberi, ed è vero che possiamo esserlo, ciò significa che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno … Questo significa che quando decido sono “io” a decidere? Sì, certo, perché sarebbe assurdo chiedersi se “io” posso fare qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVIII secolo il filosofo olandese Baruch Spinoza, sono la stessa cosa … Quando diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l’idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene in noi … Quando abbiamo la sensazione che “sono io” a decidere, non c’è nulla di più corretto: chi altri?Io, come voleva Spinoza, sono il mio corpo e quanto avviene nel mio cervello e nel mio cuore, con la loro sterminata e per me stesso inestricabile complessità". Non penso esattamente così, e non credo che idea e immagini che abbiamo di noi stessi siano “rozze e sbiadite” dal momento che costituiscono il mondo dei nostri significati, delle motivazioni, dello spirito. Ma, che io lo pensi o no, è una posizione importante e persuasiva: e come si concilia questo con la pretesa di omologazione della felicità e quindi del desiderio?
19
Aprile
Alla ricerca della felicità - 6: la felicità omologata
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Saggi brevi di filosofia