A Sarnath: sullo sfondo dello stupa. A Sarnath: sullo sfondo dello stupa.
04 Novembre

Appunti di viaggio: India del Nord. Delhi-Varanasi In evidenza

Delhi-Varanasi, 12-22 ottobre 2017

NOTE del viaggio in India del Nord

Del viaggio appena terminato mi restano un migliaio di fotografie, innumerevoli immagini nella memoria, il viso dei compagni di viaggio che mi riscalda in questo ritrovato inizio d’inverno.

Il 12 ottobre

Tra Roma (un abbraccio e viaggio Roma-Milano con Patrizia) e Milano Malpensa, ci siamo conosciuti. Per adesso si tratta di presentazioni più o meno formali, ma ci “sentiremo” meglio, presto.

Il 13 ottobre

Dopo la notte di viaggio, Il 13 ottobre vedo, dall’oblò del Boeing dell’Air India, sorgere l’alba verso oriente. L’immagine è davvero splendente, significativa. Sull’ala dell’aereo pulsa a intermittenza la luce di segnalazione, come ricordando la notte; ma, di fronte, il giorno ci viene incontro, e non mi ero mai spinto da questo lato del pianeta, pur desiderandolo da molto tempo.

Beh, adesso accade.

Rivedo i miei compagni di viaggio (sette donne, un uomo, Maurizio: delle donne non ricordo neanche il nome, non di tutte, non ancora): in qual modo riusciremo ad essere insieme? Ma questo è uno dei motivi per cui ci si mette in viaggio in gruppo: ci si saggia, ci si prova. Si fa esperienza, e l’esperienza ci fa, noi diventiamo la nostra esperienza e siamo anche questo.

In aereo, di tutto: in prevalenza, persone che tornano in patria. Alla mia destra, una giovane donna indiana. Stiamo perlopiù in silenzio ma tutta la notte, ha dormito in modo inquieto, toccandomi spesso. Quando ci portano il modulo immigrazione da compilare con le nostre generalità, lei, che deve averlo visto più volte, con grande discrezione cerca di darmi una mano. Mi colpisce la sua dolcezza. Noto le sue lunghe dita, piuttosto raffinate. Aspettava la mia iniziativa, parliamo un poco. Mi dirà poi che lavora in Italia, a Mantova. Atterriamo. Ci salutiamo con un goodbye, e il contatto con lei mi sembra un’ottima accoglienza che l’India mi ha regalato.

Invece l’approccio alla sterminata capitale è molto più deciso, brutale: Delhi si presenta nel pieno della mattinata di un giorno lavorativo, un venerdì, e il suo traffico è caotico, l’inquinamento dell’aria è senza remissione (si avverte, nonostante la splendida giornata), l’inquinamento acustico micidiale, tutti suonano clacson perché questo è il costume, nel caos occorre avvertire, farsi rispettare … ognuno si fa avanti, vuol precedere, taglia la strada, … in questo punto di città che attraversiamo per l’albergo, la città è un agglomerato di costruzioni senza capo né coda, iniziate e mai o mal finite, o sventrate, intonaco fatiscente o mattoni pieni rossi a vista, con insegne di attività commerciali dipinte a mano, quasi sovrapposte, disordinate, e una brulicante cosmopolita folla variopinta, donne perlopiù in sari, mendicanti, faccendieri, tuc-tuc, venditori di qualunque cosa, …

Ci si presenta, con i due uomini addetti al bus, che saranno con noi per sei giorni e che qui chiamo Asso, il nostro accompagnatore,  e Raj, l’autista, anche la guida del giorno a Delhi, Shiv: un giovane bramino, esperto dell’Italia (ha studiato a Perugia, sembra abbia amici ovunque), molto fiero della sua casta, che risulterà alquanto coinvolgente, in particolare con le sue spiegazioni della grande triade induista, e delle connesse divinità-simbolo, condotte  per esempio la sera, alla visita del Birla Temple, dove le immagini sono eloquenti. Vediamo subito la grande moschea musulmana, Qutub Minar, con un’immagine grandiosa di quella civiltà, ma anche della vita indiana, con le numerosissime scolaresche presenti in visita e la bellezza delle bambine dai bruni lineamenti, dai nerissimi capelli, ovunque ordinate in gioiose file … che facilmente, con permesso delle maestre, si prestano anche a foto con noi. Penso immediatamente: dev’essere questa, tutta questa energia, la forza di questa nazione così antica e così giovane; e Shiv ci conferma: noi indiani diciamo che l’energia è femminile. Qualcuno mi osserva che gli indiani sotto molti aspetti sono maschilisti: l’ho notato. Ma le nostre categorie, con cui valutiamo quel che vediamo, sono anche la realtà? Ciò che si vede in India pone tante domande, io non sempre ho risposte. Vedendo e ascoltando quel che pulsa questa mattina sotto l’antico minareto, mi si fa chiaro quel che ho sempre sentito, ovvero la potenza del femminile. Poi vediamo e ci fermiamo a New Delhi, Porta India e Parlamento (mi servo della toponomastica che ci ha inviato Marcella, incrociandolo con i miei ricordi e con il programma che ci ha dato Patrizia). Ogni volta che scendiamo dal pullman, veniamo assaliti da mendicanti e venditori, o gente che vuol cominciare a parlare, forse per conoscerci, forse per portarci da qualche parte, o per vendere. Shiv sa bene di chi o di che si tratta, e più volte ci fa schermo. Ci conduce in visita alla casa di Gandhi, e vediamo il luogo in cui egli venne assassinato: una specie di museo – per un disguido non visito il piano superiore, ma mi resta una citazione: simplicity is the essence of the universality – che si situa tra oriente e occidente, proprio dov’era la mente del padre fondatore.

Avverto qualcosa di avverso, di cupo. Non riesco a sentirmi a mio agio. La stanchezza del viaggio? Il ricordo, la presenza che aleggia qui, della morte tragica di Gandhi? … Qualcuno, che ha letto, mi suggerisce: semplicemente, è l’India!

In questo giorno vedo tra l’altro la differenza tra New e Old Delhi (che non conoscevo: lo stesso Shiv, tuttavia, preferisce non accompagnarci nel grande mercato della città vecchia che vediamo sulla sinistra, di fronte alle rosse, grandiose mura del forte: è molto timoroso, dice che … ruberebbero anche lui).

… mentre il Suncourt Hotel Yatri, dove siamo in fondo alla giornata a New Delhi, può apparire un’isola felice, una pausa: appena scendiamo dal piccolo bus, ecco un altro saggio dell’assedio ai turisti; ma in pochi metri la porta dell’hotel si apre, e  l’uomo alla reception è discreto, disponibile, anzi con grande cortesia – che verrà confermata il giorno dopo, quando sarò altrove – da questo albergo si informeranno se la mia scheda telefonica dell’Airtel, da loro procurata, sarà stata attivata. Mentre la camera è accogliente e gli asciugamani, puliti. Non sempre sarà così.

E subito dopo, il più vicino ristorante, con un saggio di cucina indiana, basata su carni bianche – il pollo in tutte le speziate salse e maniere possibili – lo saggeremo come tandoori, masala, curry, che siano la stessa cosa o non – e la grande alternativa, il “veg”, il vegetariano. Mentre gli alcoolici sono remoti come la carne bovina o suina – si capisce facilmente il motivo – ma ci risulta molto gradito il “lassi”, una bevanda che somiglia allo yogurt, anche alla frutta, ma allo stato quasi del tutto liquido, che troveremo poi nella versione eccellente alla fine del viaggio, in uno squinternato locale di Varanasi.

Il 14-15 ottobre

Avverto che, mentre con Patrizia e con Maurizio il primo approccio è stato più facile, con le altre donne del gruppo tarda, ma credo sia questione di ore, e so che ci troveremo bene insieme, al meglio possibile (Maurizio è gentilissimo, ne abuso un po’ per chiedergli di fotografarmi, all’improvviso, e spedire in Italia). Non me ne faccio un problema. Credo ciò sia dovuto alla differenza di età, ma anche al mio carattere, che non è esattamente intraprendente, sebbene in fondo sia tranquillo e accogliente …  e occorre che questo venga compreso.

Secondo programma, ce ne andiamo la mattina, per tempo, con i due nostri angeli custodi, per un lungo percorso verso il Rajahstan, a Jaipur, l’altro vertice, con Delhi e Agra, del “triangolo d’oro”. Autostrada a tratti infernale, in ricostruzione, intasata di camion e automezzi pesanti – Raj fa prodezze nella guida, busca anche un applauso.  A Jaipur l’India si fa più presente, se possibile, si fa più forte: non esiste una “Nuova Jaipur” come esisteva una New Delhi o comunque vediamo e viviamo l’immensa città, con i suoi contrasti abissali (saremo qui per due notti),  sconvolta anche dai lavori per la metropolitana. Ci accoglie Vaseem, la guida. Anche lui parla italiano. A differenza di Shiv, Vaseem è musulmano, e un po’ lo si avverte nella modalità del riferimento al femminile; ma è sinceramente dedito a farci conoscere tutto quel che può. Un piccolo prodigio: autodidatta nell’apprendimento della nostra lingua, la parla in modo del tutto comprensibile. Nel primo pomeriggio, dopo una puntata in albergo, andiamo con lui al Galta Temple, qualche chilometro dalla città, che si vede dall’alto della collina, al tramonto, avvolta nella foschia dell’inquinamento. Il Galta Temple è il tempio delle scimmie: queste, in prevalenza una moltitudine di macachi, che circolano facilmente dalla montagna ai cortili e alle mura e viceversa, ne costituiscono la popolazione. Ma ci sono i monaci, inclusi i ragazzi, quelli che da noi sarebbero i seminaristi: che sono destinati a una vita piuttosto appartata … una via di mezzo tra preti e asceti. Entriamo nei locali adibiti al culto, saliamo per le scale, negli invasi d’acqua, per cortili e corridoi. Scende la sera, si fa sentire qualche zanzara. Anche del Galta Temple ho una sensazione di grave estraneità, come di qualcosa di alieno alla vita e un po’ angoscioso, salvo l’atteggiamento di un custode buontempone all’ingresso, che, vedendomi seduto vicino a lui, si toglie il turbante rosso e me lo ritrovo in testa, con una bella risata di tutti e fotografie. La serata si chiude con una corsa in tuc-tuc al ristorante “Handi” per cena – una buona cena, e sarà una consuetudine, che le cene siano buone, quaggiù in India.

Anche con la nuova guida familiarizzo. Dopo la notte nell’albergo “The livin”, abbastanza ben messo, si passa il giorno appresso a visitare la città. Una visita che mi è rimasta impressa per la quantità di cose viste e provate, dagli incantatori di serpenti al palazzo del vento, dal forte rosso con gli elefanti enormi che salgono e scendono carichi di visitatori ai giardini e cortili, dalla visita al fastoso e ancora abitato palazzo del Maharajah (in cui siamo stati serviti anche di un tè pomeridiano con pasticcini) allo spettacolo del Palazzo dell’acqua, all’Osservatorio astronomico – una delle cose più belle viste, fine Settecento, sempre opera di Maharajah illuminati – e infine al mercato delle spezie a soprattutto all’immenso mercato delle stoffe, illuminato per il diwali – la grande festa indiana delle luci, che ormai inizia – in cui si ha la sensazione di aver trovato quel che si cerca dopo due negozi, con il risultato che non si vede quasi nulla di quell’immenso repertorio. Che peccato, non c’è tempo, si deve andare a cinema. Salutata la guida, ci addentriamo nel mercato, ma troppo poco, come ho detto; poi al ristorante, stavolta il “Natraj”, quindi al grande cinema quasi attiguo.

Il 16 ottobre

Si parte per Agra, che non sarebbe tanto distante, almeno su una nostra autostrada, con un’auto mediamente veloce, ma in India diventa quasi remota, per via delle condizioni … discontinue delle strade. Si fa tappa intermedia al sito archeologico di Abhaneri e attiguo pozzo, Chand Baori. Il pozzo enorme, nella sua geometricità un po’ enigmatica, sembra uno di quei disegni di Escher, con scale che vanno nella profondità e chiaroscuri nettissimi. Impressionante, ma vero: ci si aspetta che, d’improvviso, le scale che vanno giù per venti metri in una specie di imbuto quadrangolare all’acqua verdastra del fondo si rovescino, rivelandosi impraticabili, refrattarie alle leggi della gravità. Ai lati del camminamento a bordo pozzo sono ordinatamente visibili i reperti numerosissimi, numerati, scolpiti in rilievo, icone della cosmosimbolica dell’induismo, dalla somma triade a una selva di divinità minori e diverse epifanie. Prima del tempio, sebbene qui i mendicanti siano pochi, mi viene incontro un uomo molto giovane, con due moncherini in luogo delle braccia. Nulla di poco dignitoso, in quel suo chiedere. Non posso fare a meno di infilargli una banconota nel taschino della camicia.

Devo fare un piccolo inciso: qui parlando di questo viaggio mi sento costretto a tralasciare ben poco di quel che ricordo, perché mi sembra tutto notevole, e non per semplice dovere di cronaca. Forse sbaglio, eppure mi sembra tutto significativo. Le cose viste mi sembrano troppo spesso di tale spessore e intensità, che forse non posso comprendere, ma non posso omettere.

Dopo qualche ora arriviamo a Fatehpur Sikri. Per dire francamente: della moschea – che visiteremo dopo – mi resta solo un mendicante che avrà avuto tre o quattro anni, dall’aria buona e due occhi vispi e intelligenti, istruito da un altro, che avrà avuto uno o due anni di più e di atteggiamento del tutto diverso. Mi resta anche la fastidiosa insistenza di pretese guide, che si spacciano per dipendenti della moschea; ci vuole tutta l’autorità e la pazienza di Patrizia per liberarsene, come pure, all’ingresso della residenza-fantasma fatta costruire nel XVI secolo da Akbar dei Moghul, per allontanare un sedicente competente che ci segue a lungo, fino al primo cortile. Insomma, l’aspetto umano e dolente, distorto: questo ricordo. La distorsione fraudolenta e l’anomalia, la manipolazione, la singolare visione del mondo come pratiche costanti di vita, perché forse si ritiene che non vi possa essere un altro modo di vivere. A questo punto debbo accogliere un suggerimento involontario di chi ha letto e mi dice: ricordo il viaggio laggiù come un incubo. Certo, questo viaggio è anche un incubo vissuto ad occhi aperti. Questo viaggio è stato la visione dell’eccesso di tutto, dal sublime (che non è incubo: è sogno stupendo) alla noncurante esibizione di tutto ciò che è orrendo della vita. Incubo, appunto.

Ma la visita alla città, o meglio alla residenza di arenaria rossa immensa e articolata, è qualcosa che, ancora una volta, suggestiona e resta impresso. Oggi a quest’ora (mattina, verso mezzogiorno) non ci sono molti visitatori. Le dimore moghul, che vennero costruite e abbandonate nell’arco di circa quindici anni, sembrano nuove di zecca, e che stiano ancora e per sempre in attesa del ritorno del sovrano e della sua corte. I giardini, come sempre in India, sono curati, con larghissimi ariosi spazi in erba rasata, all’inglese. Anche i giardinieri sono invisibili, a meno che non ne emerga uno, forse falso, a proporci un acquisto. Gli ambienti, quelli accessibili, deserti e piuttosto puliti. Le forme dei palazzi, costruiti in grandi blocchi perfettamente squadrati, sono state alleggerite dalle eleganti torrette, dalle colonnine, dai padiglioni che le sovrastano. I cortili sono enormi e danno respiro a tutto il complesso.

Mi trovo a pensare che Borges, nel descrivere la deserta città degli immortali, non avrebbe avuto bisogno di inventare architetture rovesciate, se solo avesse visto questo luogo già trovato dall’eternità, costruito da fantasmi. Non c’è dubbio: questo luogo da noi remoto, così struggente in tutte le luci del giorno, è non meno reale che letterario e immaginario.

Ma, se queste architetture di Fatehpur Sikri sarebbero un luogo di Borges, come si può dissociare la visione di Agra, nel nostro immaginario di occidentali, da una versione dell’inferno, dal rovesciato giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, non appena vi si entra e mentre di tardo pomeriggio la si percorre nel piccolo bus? E debbo aggiungere che non abbiamo, forse, visto il peggio: gli stessi indiani dicono, e io riferisco che, se c’è un inferno in terra, questo è Calcutta, per non dire di Mumbay!

Un caos di fogne a cielo aperto, architetture sconnesse e crollanti eppure popolate, canali malsani, una moltitudine di luoghi in cui si brucia spazzatura e plastiche diffondendo ovunque nell’aria quell’odore velenoso che così respiriamo per tutto il tempo; traffico impazzito e pericoloso, emissioni di gas di scarico fuori controllo, ancora rifiuti, sterco di vacca, capre e bovini ovunque, anche a centro strada, scimmie che corrono a terra e in alto, cani; neanche un gatto, nemmeno a pagarlo. Se scendo un attimo: dopo cinque secondi, gente che insiste a portarmi ovunque in tuc-tuc, mi propone un cambio vantaggioso, un affare improbabile, fasullo, che mi chiede elemosina. 

E spesso non sono cattivi né scortesi, ma insistenti fino a spuntarla, o quasi. I loro occhi ti cercano per dirti di patimenti, di una vita che non vuol essere altrimenti, forse non può. Gli occhi sono spesso vivi, intelligenti, quando non sono disperati; mai cattivi. Non quelli che mi vengono incontro. Altri mi sembrano di malaffare, non che non ve ne siano, li vedo; ma quelli non ti cercano, o non lo farebbero così. I pochi negozi visitati: gente disponibile, gentile.

Eppure la notte, prima della visita al Taj Mahal, all’alba, si cena in un ristorante, l’ Atulyaa Taj, con piscina attigua ai tavoli all’ ultimo piano in terrazza d’albergo: una location quasi di lusso, e non è la sola, dal parapetto se ne vedono altre vicino, e molto frequentate, anche. Siamo in presenza di un altro dei vertiginosi contrasti dell’India, con la povertà estrema che cammina per le strade, sgomitando con auto nuove di zecca e di alta cilindrata e ricchezza in aumento – come sempre nelle nostre società, ma qui in modo sfacciato. La mia guida Rough (del 2009) dice che Agra è in questo disastro perché male amministrata; ma adesso è il 2017 e il tempo passato non ha migliorato le cose, e bisogna aggiungere che anche a Jaipur, p. e., la ricchezza crescente non evita che i contrasti esistano e che si vedano, anche là come a Delhi, con forza estrema. Ma queste cose si sanno.

Come gli altri l’albergo di Agra, il Crystal Inn, non è affatto male, sebbene tutti potrebbero essere ancor più curati.

Il 17 ottobre

La visita di rito al Taj Mahal prevede la sveglia prima dell’alba. Alle 5,20 siamo in movimento con i nostri angeli custodi, molto vicini a noi – con qualche piccola discontinuità caratteriale da parte di Asso, che prestissimo sempre rimedia – e venti minuti dopo la biglietteria apre. Andiamo, con qualche contrattempo, ai rigorosi controlli d’ingresso (paragonabili all’ingresso negli USA: timori analoghi).

Il Taj ci confonde. Ci disperdiamo, ci ritroviamo a gruppi, ci scompigliamo di nuovo nella folla crescente dei pellegrini. Perché venire qui somiglia a un pellegrinaggio. C’è tutto il mondo, qui.  Siamo presi nell’ammirazione dell’eterea costruzione del Seicento, del suo mito. Che quel sovrano – suona così il nome: Shah Jahan – fosse un gran romantico, o un megalomane, l’edificio cattura chiunque. La sua evanescente compattezza verifica all’occhio ciò che è invisibile, mi riferisco alle tesi più avanzate della fisica contemporanea che qui si dimostrano, ma con come sequenze di stringhe matematiche, bensì nel modo della percezione immediata: da un momento all’altro il compatto, che chiamiamo il pieno, sfuma e si confonde col vuoto, passando senza soluzione di continuità nel vuoto (che tale non è: è l’aria) e il vuoto-aria ritorna nel pieno della grande cupola candida nel primo chiarore del mattino: il Taj è questo, un sogno, e come tutti i sogni è vita, perché la vita a sua volta è sogno.

Più di due ore così, tra la materia e il fantasma, e la successiva visita al forte rosso, segnato dalla storia, anche questo imponente, con residenza del Maharajah, e ampi giardini; poi la strada, con l’importante fermata a Gwalior, fuori delle rotte più usate. Ancora e ancora sorprese, ovunque: ci sarà anche qui la visita al forte, percepito nelle formidabili mura – ancora una volta in rosso contrasto con l’azzurro del cielo – che salgono con l’erta della collina. Ma non ancora abbiamo raggiunto la sommità per la visita, che si affacciano, sulla destra, caverne scavate nella roccia, con grandi statue e figure che sembrerebbero raffigurazioni del Buddha. Proseguiamo, torneremo a vedere. Dopo una sosta con uno squisito tè offerto da Asso, si presenta una guida inattesa ma entusiasta del lavoro e piuttosto colta – offertosi con garbo e accolto all’istante, con felice intuito, da Patrizia – e ci precede nel palazzo popolato di imprese, di conquiste, di rovesciamenti delle sorti, di fatti truci, di luoghi tremendi come il sotterraneo delle torture e di chissà quante inique morti; di sovrani feroci come Aurangzeb, di induisti, Moghul e musulmani, fino all’ultimo colpo di mano, quello degli inglesi; Samar Singh – credo si chiami così –  ci illustra nel suo inglese indianizzato il simbolismo delle raffigurazioni nel cortile, che sarebbero altrimenti passate inosservate, e ci rende ancora una volta consapevoli della ricerca del senso nella vita, che, in ogni epoca, ha colorato il mondo; ci pensa Marcella a tradurre per tutti, che ha dimestichezza con quel tipo di inglese. Al ritorno, ci fermiamo in discesa, a vedere i formidabili complessi delle statue rupestri: nel frattempo, qualcuno ha letto che si tratta di figure giainiste, e che le mutilazioni di viso e di genitali sono dovute alla conquista musulmana (in qualche caso il viso è stato poi rifatto).

Arriviamo la sera a Orchha, in un albergo con casette-appartamento, dislocate nell’umido di un pendio alquanto suggestivo, con qualche rudere. L’albergo Betwer Retrait, con ristorante, ha molte pretese, ma andrebbe curato: si vede che non ha entrate sufficienti, e che viene gestito al risparmio. Ceniamo qui e non ne possiamo più dell’ennesima pesante giornata, di nuovo il sonno è benvenuto. Domani, il lungo viaggio per Khajurhao.

Il 18 ottobre

La mattina, anche a Orchha siamo in piena celebrazione del diwali, e la gente affluisce in strada, alcuni danzano. La nostra guida ci porta attraverso il palazzo reale, il Raj Mahal, consentendoci in particolare di cogliere il senso di ciò che resta degli affreschi, con le incarnazioni della divinità, e la “logica” della struttura, la destinazione degli ambienti. Dopo una visita veloce al tempio, si riparte per un viaggio di ore, ancora, per la penultima tappa, Khajurhao.

Molti indiani indiani sono non soltanto miti e gentili, ma anche molto veloci nel cogliere l’ironia e pronti alla risata. Difficilmente sono così le guide, compresi nel ruolo e alquanto tesi; ma gli altri, più rilassati, giocano e sorridono, mi sembra, in un modo molto diverso da gravi, seriosi musulmani, sebbene indiani anch’essi. Così il nostro accompagnatore di sei giorni, Asso, amabile e tuttavia soggetto a sbalzi d’umore.

Intanto, in questi giorni, quel che di positivo poteva avvenire tra noi compagni di gruppo è avvenuto: circola un’aria molto diversa dall’inizio, più familiare, e ognuno, rispettando e apprezzando gli altri, si sente a proprio agio, per quanto possibile. Così mi sembra. Quando possiamo sostenerci, lo facciamo, e se possiamo scherzare o ironizzare con garbo, lo si fa. Patrizia è molto attenta a pretendere che chi è pagato offra un servizio adeguato, mentre, pur essendo piuttosto direttiva nell’interpretazione del ruolo, si adegua immediatamente alle esigenze del gruppo o di una sua parte: chi vuole dissociarsi dal percorso – per esempio la sera a Jaipur, un gruppetto di noi è tornato al Livin a fine primo tempo del film made in Bollywood (divertentissimo, persino coinvolgente nella sua comicità d’invenzione: ma eravamo stanchi) con i tuc-tuc, e gli altri sono rimasti fino al termine della proiezione.

Partiamo per Khajurhao, dove arriviamo in orario per la visita dei complessi dei templi. Quel che colpisce l’umanità è il gruppo orientale, con una serie di costruzioni esternamente stupende, con le caratteristiche cupole oblunghe ad assottigliarsi in alto, con un fregio continuo laterale di arenaria dai cangianti colori durante le fasi del giorno, dal rilievo che, almeno in due su tre templi principali, propone continue scene di sesso di tutti i tipi, persino tra uomini e animali. Non mi sembra di poter condividere che qui si tratti di “delicata sensualità”: qui si tratta della sessualità, in ogni sua possibile variante, senza vergogne o remore. Ne abbiamo già parlato con Maurizio e Fortuna, miei vicini di … sedile, in pullman. Qui si dice esplicitamente quel che tutti sanno, ovvero che la sessualità conta, e che deve valere molto nella vita, e la si può anche mostrare, non è pornografia. I bramini come Shiv hanno un bel dire che il sesso è per il momento, mentre la strada che porta lontano è quella – stretta, lunga – dell’ascesi: senza voler esagerare, è qui evidente quanto valga quell’aspetto, per quella mente collettiva del X secolo che pensò questi templi, tanto da dedicarvi gran parte del lavoro, e progettò le facciate, sui quattro lati.

Al ristorante, il miglior pollo tandoori di tutto il viaggio. Intorno, nella piazza antistante i templi – una situazione curiosamente simile a quella di Paestum – negozi, ma con un approccio del tutto autopropositivo, diciamo, dei negozianti, che tuttavia, ancora una volta, non sono per questo scortesi – anzi, uno, un giovane che parla italiano, insiste addirittura per regalarmi due paia di orecchini in argento con pietra, visto che “ho colto lo spirito del diwali”. Più avanti, verso il buon albergo, ristagni d’acqua a margine di strada, usati anche in modo rituale durante l’anno, ma che non promettono nulla di buono, ancora una volta, quanto ad igienicità.

19, 20, 21 ottobre

Al mattino per tempo partiamo in lungo viaggio per Varanasi. Impiegheremo quasi tutta la giornata, la prenotazione del treno notturno è andata a monte, e così l’esperienza delle ferrovie indiane, che resta da fare. Ma qui, per strada, è la maggior occasione per guardare e saggiare le strade dell’India (già peraltro a buon punto, come esperienza), che si presentano nella loro varietà, snodandosi tra la terra rossa della campagna, le distese deserte, le ciminiere dei forni per la cottura dei mattoni rossi: dalla strada stretta, trafficata e difficile a quella per giunta mal tenuta, piena zeppa di buche nell’asfalto, a quella più agevole, dove il cammino è più spedito, all’autostrada vera e propria, che tuttavia nasconde l’insidia. Ci si presenta oggi ogni tipo di percorso, durante le 10-11 ore di viaggio. Mandrie bovine, di continuo. Villaggi in festa per il diwali. Donne in sari di fortissimi colori. Uomini di religioni diverse, diversamente vestiti. L’impressione, qui dove la guida è a sinistra, è che ad ogni veicolo che incrociamo si profili uno scontro frontale; che non sia solo un fatto percettivo, lo conferma la frenata di Raj, ogni volta che siamo vicini a un altro automezzo: c’è bisogno di frenare e di andare più a sinistra, altrimenti l’impatto ci sarebbe, ma non si può di solito marciare a sinistra, perché lo spazio per la corsa più spedita manca, il nastro d’asfalto è esiguo in larghezza, disteso al risparmio, e i bordi – quando non il centro – sono di continuo occupati da animali (meglio sacri) e persone.

Passiamo così anche per una enorme centrale elettrica, prima di Allahabad. Non risulta affatto sulle liste, ma sembra una centrale nucleare. Anche qui gli indiani sembrano avere esagerato nelle proporzioni. Si vede che, quando costruiscono qualcosa, non possono farne a meno. Anche il livello tecnologico che sanno raggiungere ha qualcosa di immenso.

In queste condizioni impossibili di guida, è bravo l’autista, salvo che, quando siamo infine alle porte di Varanasi, in autostrada, d’improvviso un’auto si arresta, si presenta ferma davanti alla nostra corsa e non c’è tempo per la frenata. Da vero esperto, Raj opta per il marciapiede e sterza sulla destra: potremmo perdere la ruota anteriore, ma anche quella si salva.

Arriviamo in albergo, il City Inn Hotel, e salutiamo affettuosamente i nostri bravi accompagnatori, che si son presi cura di noi nei giorni da Delhi in qua. Chissà se ci rivedremo. Sera: come se nulla fosse, ripartono per tornare alle loro famiglie. Intanto, Facciamo conoscenza con le nuove guide, nella hall: il bramino Pandit Gopal e suo figlio Prakash, sarà una conduzione di famiglia, in questi due giorni. L’albergo è veramente bello, ma con qualche carenza, qua e là, nella pulizia. Del resto, basta parlare, non c’è stato un solo albergatore che non sia stato disponibile.

Al ristorante gestito da cinesi, raccomandato da Gopal, cucina indiana. Oso chiedere un’insalata (sconsigliata: con quale acqua la lavano?) che è abbondante e mi sembra ottima. La città è in piena festa. Il cielo sulla terrazza è pieno di fuochi artificiali e di lanterne, una atterra a quattro metri da noi. Un ragazzo del ristorante ci precede nel ritorno per un percorso sicuro tra le insidie dei fuochi. Come quasi sempre in India, gestire i cellulari è problematico. Servirebbe una scheda di compagnia indiana, ma non sono riuscito ad attivarla. Me la cavo con whatsapp, quando posso. Si dorme: domani all’alba sul Gange!

Alle cinque, attraversiamo a piedi la parte vecchia di Varanasi, scendendo al Gange. Siamo esterrefatti: nell’immediato dopo-festa, la situazione è ancora peggiore di quanto appaia di solito. Distinguo: case diroccate, macerie ovunque, degrado edilizio, scimmie, bovini e relativo sterco, capre e cani, non appartengono alla festa e credo siano qui da sempre. Invece, i cumuli insuperabili, inevitabili, di rifiuti e di spazzatura, credo siano prodotti dal disordine felice della festa, e credo che verranno rimossi appena possibile, qualcuno mi dice che è sempre così. Siamo alla riva del fiume: si prospetta immenso, già così, fino a un isolotto lungo e sabbioso, e s’indovina – subito ci viene confermato – che, nelle piene, il mostro d’acqua s’alza fino ad altri quindici metri, a una specie di mare in movimento, sommergendo questa sponda e l’altra. Alla nostra sinistra i resti delle pire bruciano ancora in gabbie metalliche rettangolari, che contengono la legna – e le ceneri dei morti. Attendono nuovi corpi. In barcone, navighiamo il fiume controcorrente: il sole s’alza, la gente arriva, e s’immerge. La sponda è piena dei vestiti, dei drappi di cui sono stati liberati i morti prima del rogo: ma vedo qualcuno che addirittura, prima di immergersi, si lava la bocca con l’acqua del fiume. E comunque nessuno sembra mostrare problemi nel contatto con quest’acqua, e credo che il Gange, come ogni grande fiume, come ogni acqua in movimento, abbia un valore benefico, salutifero. Il nostro amico bramino ci spiega che alcuni morti – bambini, donne, lebbrosi – non hanno “diritto” alla cremazione, li si brucia in effigie, con ritualità sostitutiva: ma il loro cimitero è sempre … il grande fiume, in cui vengono gettati, impacchettati e legati a un peso che li porta in fondo. Certo, con un po’ di tempo l’acqua cancella tutto: resta poco, poi nulla. La superficie del fiume all’alba è fresca, pulita, ristoro dell’occhio, a perdita di sguardo; il fondo … non si vede.

Risaliamo sulla terraferma e visitiamo la città vecchia – una palestra all’aperto, ammirando anche l’efficacia del metodo di lotta sul terreno; un tempio nepalese (i Maharajah venivano qui a morire, ci si dice, e ognuno vi costruiva il proprio palazzo); tempi e tempietti ovunque (ci dicono: oltre sessantamila, nella vecchia Varanasi; di fatto, ogni casa contiene uno o più tempietti induisti). Vita e degrado e ancora vita e colori e sporcizia. Visitiamo una residenza sul fiume che dové essere sontuosa, e ancor oggi è abitata da più famiglie, in affitto. Ogni cosa qui ricorda tempi migliori, e forse ne attende, chissà. Avverto che siamo ormai divisi sull’India: Catia, forse Sabina, sono perplesse, forse molto negative, sulla spiritualità di questo paese. Ognuno pensi quel che vuole. Ma, per me, voglio dire che forse, per intendere tutto questo, dovremmo fare ancora uno sforzo, e forse neanche basterebbe. E sull’India ci si divide, ma … non credo di poter dimenticare.

Tra i cumuli di un po’ di tutto, entriamo a ora di pranzo a casa del bramino. Al primo piano ci togliamo le calzature, salutiamo la moglie del figlio, che sta ai fornelli per tutti, e ci sediamo sul pavimento. Questa postura non mi è mai piaciuta, mi portano un altro cuscino e così, semisdraiato, intavolo una conversazione con il nipote tredicenne e la nipote, appena maggiore. Mi vengono vicino. Sono svegli, curiosi, vivaci. Il ragazzo sorridente, la ragazza seria, già molto responsabile, persino alla verifica – condotta all’istante, presso l’autorità del padre – dell’informazione che le fornisco. Il pranzo è rigorosamente vegetariano, sono cotolette di patate e di melanzane, abbondanti, le trovo squisite. Ci salutiamo affettuosamente. Gopal ancora ci conduce in visita al quartiere musulmano, alle fabbriche tessili, al negozio dei tessuti: apprenderemo poi che il negozio è di sua proprietà. Ma lui è gentile e alquanto distaccato, ci fa condurre al negozio da un musulmano e resta fuori dal quartiere, resta sorpreso solo quando apprende che io e lui siamo coetanei: nel settantesimo anno, entrambi. Il figlio appare un po’ più sbrigativo. Il padre sembra sul punto di distaccarsi dalle cose, il figlio immerso nel corso delle incombenze, le donne sono seminascoste, i nipoti si affacciano adesso sulla vita, pieni di energia.

Senza tregua, di nuovo, giù per la vecchia città, perdendoci e ritrovandoci, qualche sosta per bere (si suda, dall’arrivo a Delhi, tutta la giornata, al caldo umido – 30, 35 gradi e anche di più). Si è costretti ad assumere liquidi più che a mangiare. Passa un funerale che scende ai ghat, alle scalinate sul fiume. Vi arriviamo: ci aggiriamo alle spalle dei luoghi di cremazione, tra le grandi cataste di legna, davanti alla bilancia rossa per la pesa. Passa qualche minuto: il calore aggiunto al caldo si fa insopportabile, si stanno bruciando i morti in tre punti contigui su tre livelli, una dozzina per volta, e ne arrivano altri. L’aria è piena di cenere, ma nulla di malsano, mi pare, solo trovo pesante quel che accade, per uno di noi, abituato alla lenta elaborazione del distacco con l’inumazione. Tutti qui possono vedere tutto di un corpo umano, è uno di noi, che viene carbonizzato dal fuoco. A me resta l’immagine, circa dieci metri più sotto, affacciandomi su una balaustra: s’intuisce il corpo che brucia. Solo i piedi e le caviglie spuntano dalla legna e dal fuoco, e quelli sono molto reali. Tutti possono guardare, purché non vi siano foto, e mi sembra ovvio; alcuni di noi tornano senz’altro in albergo, altri, come Cristina, Sabina, Maurizio e Patrizia vogliono esserci, vedere. Qualcuno come me, Fortuna e Catia, trova una soluzione intermedia: dopo aver visto qualcosa, come ho detto, ci sembra forse di aver visto tutto, e ce ne andiamo a spasso sulla sponda del Gange, magari a trovare da bere e a chiacchierare. Herman Hesse scrive che questa esperienza del corpo che brucia e va in cenere sarà una delle quattro visioni che persuasero l’Illuminato, il Buddha, a cambiare vita. Hesse inventa, sicuramente, ma credo di capire.

Ritorna Gopal, ce ne andiamo in barca con lui ad assistere alle celebrazioni del diwali, ai riti rumorosi, ai suoni, cala la sera, per poi tornare in hotel – questa volta dalla parte nuova di Varanasi, più pulita ma non meno caotica e festosa – dopo la cena in (un buon) ristorante.

La mattina dopo, visitata la stazione ferroviaria – in rifacimento, interessante, anche qui tante cose che potrei dire – e un negozio di tessuti di seta (belli, il gentile negoziante che ci offre il tè, grande shopping), ho l’impressione che stiano ripulendo la città. Ma si riparte per l’ultima tappa, che è Sarnath.

Sarnath è il luogo in cui si tramanda che il Buddha pronunciasse il suo primo sermone e in cui, nel gigantesco stupa tante volte rifatto nei millenni, sarebbe una parte dei suoi resti, divisi agli angoli dell’India. Il luogo, con l’annesso parco dei cervi, i giardini e gli alberi, le rovine dei monasteri a fior di terreno, gli adiacenti musei, ispira una gran quiete. Mi rilasso un attimo sdraiandomi sull’erba e cado in un sonno profondo. Mi sveglio solo perché mi sento chiamare. Resto intontito per qualche minuto.

Il museo multimediale sul Buddha è assai ben fatto e offre un’idea delle potenzialità di questo paese, in linea con qualunque realtà contemporanea dei paesi a tecnologia avanzata; lo stesso, o quasi, si dica per il vicino, quasi impeccabile museo, dove possiamo ammirare, oltre la celebre ruota, il simbolo dell’India, ovvero il capitello dai quattro leoni, realizzato per il sovrano Ashoka, che anche fece costruire la prima versione dell’attuale monumento funerario (lo stupa) all’Illuminato.

Abbiamo finito. Ma è certo?

Tra qualche giorno, mentre scrivo, crescerà la consapevolezza del fatto che, di questa sterminata realtà, sono molte di più le cose non viste, e di maggiore interesse, che non le cose viste. Ma abbiamo avuto un primo saggio: e questo campione è attraente quanto repellente, anche per me come per gli altri. Raggiungiamo l’aeroporto e di qui Delhi. Il giorno dopo, voliamo via.

Che dire, ancora.

Intanto, il carattere di una persona: adesso ognuno è precisato, nella mente di ciascuno il carattere di ogni altro, come un ideogramma, una preziosa com-plicazione, un centro d’energia dello sterminato universo, ma molto, molto più complicato di un carattere della scrittura, e unico. I miei compagni di viaggio – Catia, Cristina, Fortuna, Giorgia, Marcella, Maurizio, Patrizia, Sabina, restano in me scolpiti con i loro caratteri. E restano le relazioni, nelle loro modalità. Di quando siamo stati a tavola. Nelle hall degli alberghi. In visita, nei diversi luoghi così densi di storia e di significato che ce ne siamo resi conto a malapena. Nelle strette e incredibili stradine di Varanasi. Rivedo tutte le volte – centinaia – in cui ci siamo fermati, a contarci, ci siamo cercati per vedere che nessuno si fosse staccato dal gruppo. Rivedo i luoghi e le circostanze. Siamo stati insieme, siamo stati gruppo: è stato una volta, non è più eppure continua a essere, nelle modalità del sentire, nei passaggi misteriosi del tempo, non solo perché ancora ci scambiamo foto e messaggi. Forse ci ritroveremo.

Ho recapiti, biglietti di visita, persone da ricordare e forse da ritrovare, tornando laggiù. Vorrei rivedere qualcuno dell’India, magari con più calma? Forse. Conoscere altra gente. Ma no guru, no religioni. Ho davvero voglia di tornarci? Certamente qui è più comodo … ma chissà.

Un modo efficace di descrivere l’India, ho pensato e detto subito, è secondo l'idea degli opposti. L’India si potrebbe descrivere così, non perché così sia: io non so come sia. Ma nemmeno posso cavarmela semplificando in base a una coppia di opposti, bensì dovrei tirare in causa innumerevoli coppie: si tratta, ripeto, di una realtà sterminata. Trovare le relazioni tra componenti di quella realtà: anche le loro divinità, così numerose, sono parti, aspetti e relazioni tra parti della realtà. Capisco che qualcuno di noi sia mosso a sdegno, nel vedere tanta sofferenza, tale degrado, ma non è tutto. L’India è anche splendore, storia, grandezza, e oggi è sforzo di progresso e anche successo. Non si può ignorarlo. Tutte le contraddizioni presenti nei modelli occidentali sono anche qui, nella più grande democrazia del pianeta, moltiplicate in misura esponenziale. Non so quante cose ho trascurato, mi sono sfuggite. Qui ho voluto abbozzare un racconto dello stupore, dell’orrore, dell’ammirazione, dei sentimenti provati. Qualcuno di noi non ha commentato. Sabina ci ha scritto in questi giorni: l’India è tremendamente reale, materiale. Ho risposto che concordo. Ma aggiungo: il tremendo viene inteso, dai teologi del Novecento, come carattere del divino. Laggiù le divinità sono in noi, il divino è nella mente, in qualche modo nella materia stessa, non lontano. E così va detto della spiritualità. Comunque non c’è, qui, un dio lontano e trascendente, come forse in altre religioni: è divina, nella loro visione, la gran circolazione della vita, il divino sta nascosto, va raggiunto – ma è qui!

Può non persuadere. L’India divide, è qualcosa di estremo, in qualunque senso. Ma credo, per quanto mi riguarda, di essere e di restare in debito di comprensione.

4 novembre 2017

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