Elea di Bruno Di Pietro (Bari, 2025) Elea di Bruno Di Pietro (Bari, 2025)
13 Febbraio

Perché la poesia è pensiero, perché non è filosofia. Su Bruno Di Pietro: Ἐλέα. Les fláneurs edizioni, Bari, 2024

 

Carlo Di Legge:

Perché la poesia è pensiero, perché talvolta non è filosofia.

Su Bruno Di Pietro: Ἐλέα.

Les fláneurs edizioni, Bari, 2024

 

                                                                                                               Danzano l’uno e i molti

                                                                                                               intorno alla rotonda luna

 

 

È di dominio comune che non si debba cercare di spiegare la poesia ma che sia pertinente parlarne secondo le suggestioni che ispira.

Se “suggestione” significa nemmeno un concetto definito, semplicemente un fantasma della mente, la poesia rischia di trovarsi perciò relegata nel dominio delle volatili “fantasie” e “immaginazioni” in quanto, appunto, esse sarebbero vane e inutili.

Non è tuttavia questo il senso in cui intenderei la poesia in genere e tanto meno quello del libro di Di Pietro.

La parola “suggestione”, piuttosto che connetterla alla sferaa volte un po’screditata del suggestivo (usato talora con ironia) o a quella del “suggestionare”, la riferirei, come da dizionario, al “suggerire” come composto di sub-gerĕreovvero “«portare», richiamare alla mente di qualcuno, fornire”, come anche nella parola inglese “suggestion” che può tradurre l’italiano “suggerimento”.

La poesia è un cammino di conoscenza: in questo senso si può intendere che essa sia psicagogia, nel senso positivo del suggerire indicando direzioni. Se è così, mi sembra che questo nuovo libro di Di Pietro offra anche un momento per soffermarsi sulla relazione tra poesia, filosofia e pensiero.

Dunque qui procedo per una “seconda navigazione” che può anche essere quella delle suggestioni e che dipende dal testo del libro, con qualche precisazione sul rapporto tra poesia e pensiero.

Credo quella di Di Pietro sia poesia (né credo che, infine, egli intenda altro) che tuttavia implica un lavoro su documenti al fine di una interpretazione del poema di Parmenide. Perciò leggiamo che Parmenide è “convertito al divenire” (p. 11).

Questa proposta in Ἐλέα da Di Pietro, poesia in verso libero nonché sorvegliatissimo, implica una singolare visione del paesaggio eleatico, perché l’essere qui considerato non è soltanto quello immutabile, mai nato, imperituro ma l’ essere in molti modi, come (e diversamente) avviene per il pensiero antico: l’essere si dice in diversi modi – («πολλαχῶς λέγεται τὸ ὄν») – quindi in Platone come dialettica delle idee, in Aristotele come categorie, quali o quante che siano, e nella cd. metafisica [1].

Qui nel libro di Di Pietro alcuni elementi presenti nelle testimonianze sul poema parmenideo (περὶ φύσηως, sulla natura), in particolare pervenuti nel brano di Simplicio, vengono ripresi, riportandoli non solo all’essere ma anche all’esistenza. Ma non si tratta del nucleo seguito dalla tradizione della filosofia per intendere Parmenide, sia pure per distinguersi. La centralità qui nel brano di Simplicio sembrava essere nella costruzione logico-ontologica, nel valore saldo, veritativo, dell’essere. Questa parte è notissima e per brevità non la riporto. Ma Simplicio in chiusura cita da Parmenide:

… e da questo momento apprendi le opinioni dei mortali,

ascoltando l’ordine ingannevole che nasce dalle mie parole.

I mortali infatti nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme

delle quali neppur una si deve nominare – e in questo è il loro errore –

… qui la fiamma del fuoco etereo… (ovvero il giorno, n.d.r.)

… ed anche quello per sé,

come suo contrario: la notte senza luce, massa densa e pesante…

Questa disposizione del mondo, puramente apparente, ti espongo in ogni particolare,

così che non potrà mai vincerti qualsiasi opinione dei mortali[2].

E cosa fa Di Pietro in Ἐλέα? Quando il filologo Ventre parla, nella sua dettagliata postfazione al libro (pp.79-108), di un verso “lontano dal lirismo”[3], a suo parere qui “Si riscontra… il tentativo, peraltro in sé riuscito, di costruire una poetica altra, connessa alla natura effettiva dei frammen­ti originari delle lamine orfiche e dei frustuli di papiro dei lirici”. Di Pietro insomma sembra centrare il libro sull’eleatismo ma ne offre un’altra immagine, e lo fa in poesia.

Egli oppone alla immagine consolidata dell’eleatismo, ovvero quella che pareva centrale in Simplicio, l’altra, questa su riportata, della (luna-) notte che vi si trovava come in margine. La “ben rotonda verità” invece qui nel libro di Di Pietro, oltre che quella della piena luce, sembra divenire anche quella della luna-notte: è, per definizione, il mondo sublunare dei mutamenti. Di Pietro pone la unità ontologica essere-divenire, per cui l’immobile eternità dell’essere, pur essendo, perlopiù non ci riguarda: si legge infatti “Quanta eternità mi circonda!/E non mi appartiene” (p. 42). Noi umani abbiamo piuttosto a che fare con l’impermanenza (usando un termine che sembra provenire da altra tradizione di pensiero) – mentre la dimensione dell’eternità immobile “ce la portiamo dentro”, dice Ventre con Di Pietro, p. e. nell’idea della eternità dell’attimo (già Wittgenstein scrisse “vive eterno colui che vive nel presente” – Tractatus 6.4311, e questo in certo senso si può capire) o in quella della “strutturalità del ritorno” (in riferimento all’immagine del tempo inteso a struttura spirale o “cocleare”, un modo di pensare in virtù del quale si può dire che “verrà il passato” o che “il passato/deve ancora arrivare” (p. 20); o che “Arrivati in cima/incontrammo/ l’infanzia della terra” (p. 15). Lo si può pensare e dire, purché si precisi che, anche se si ammette un ritorno strutturale (un po’ come la ruota delle nascite, dalla tradizione induista-buddhista), non sarò io individuo a tornare.

Di Pietro, ci vien detto, e può darsi, s’immedesima in Parmenide stesso: l’io del poeta, la prima persona, spesso sembra identificarsi con la terza persona, usata allorché si tratta del filosofo di Elea. La visione del poeta rispetto all’alter ego eleate non può che risultare proiettiva – come la nostra lo è sempre, e come è inevitabile che sia, perché ci ri-conosciamo in ciò che vediamo o che ci pare di vedere e a questa condizione lo conosciamo. Si leggono nel poema accenni o impliciti rimandi all’autore di questa poesia, alle sue idiosincrasie e al suo quotidiano, a partire dall’assunto che sia la notte/luna, non il sole, a dominare “ … gli uomini e gli Dei” (p. 17); “Le stelle faranno notte/(e io con loro)”, a p. 16; così, alla celebre Porta, “egli”, l’ormai “anziano Parmenide, arriva “stanco”; ma ancora subentra un “io”, quando si legge che “A fatica/l’età mi consente/di scendere alla marina/… Ho incontrato da vecchio/il tempo./E mi umilia” (p. 38); “Gli occhi contano quanto mi resta” (p. 62); si legge la fierezza nel presagire l’ imminenza della fine – “Mi seccherebbe morire nel sonno./Devo avere occhi bene aperti/mentre salgo la strada della Notte” (p. 75). Sembra scattare la identificazione con il filosofo-poeta fondatore dell’ontologia, dunque; così, ho detto, noi possiamo avere la ventura di avvicinarci alle cose, a volte forse di conoscerle. Le cose sono eterne, se non altro perché non si pongono la domanda che noi ci poniamo intorno all’essere, all’esserci, al tempo. Il tempo, il mutamento, hanno un senso decisivo e micidiale per noi, non per le cose. Si legge nel poema, come s’è detto, di una Elea declinata piuttosto nelle guise dell’esistenza che dell’essere. Assieme alla figura di Parmenide, scrive Ventre, si affaccia quella di Eraclito; la differenza tra Eraclito e Parmenide si fa qui non così decisa come può sembrare; ma anche, ripeto, è presente il Platone dei grandi dialoghi sull’eleatismo.

Posto allora che Di Pietro fa poesia, si può dire che egli addirittura disegni in poesia un pensiero alternativo all’eleatismo, come lo si è inteso comunemente? No, certo: in qualche modo poesia è poesia.

Poesia è poesia, ma implica pensiero, anche nelle sue manifestazioni più di avanguardia: allora diciamo che è poesia concettuale, quindi a fortiori, in quanto concettuale, la poesia sarà pensiero.

Ma pensiero è sempre filosofia?

La transitività poesia-pensiero-filosofia vale solo a certe condizioni. Se poesia è pensiero e pensiero è filosofia, bisogna precisare: in che senso?

La poesia come genere letterario ha determinato storicamente sue proprietà (e diversi, molteplici ambiti) della poesia. Poesia è molte cose ma sempre una specie nobile del pensare.

Se pure la filosofia è un genere letterario (in certa misura si può considerarla tale) anch’essa ha ambiti proprii dell’argomentare, modalità del dire e dello scrivere, alquanto diversi dalla poesia.

In Di Pietro allora non può esservi filosofia stricto sensu ma una poetica altra, come ho citato da Ventre, e ognuno veda da sé quanto una poetica possa essere aliena da elementi di pensiero. Poesia implica pensiero, come la filosofia.

Ma il pensiero solo a certe condizioni identifica poesia e filosofia.

Questa di Ἐλέα è la poesia della luna e del notturno ma non è certo la notte, in cui tutte le vacche sono nere.

Se il pensiero è filosofia, non tutto il pensiero coincide tuttavia con la filosofia: no, se per filosofia si deve intendere quella delle università, dal Medioevo in qua, e se ogni manifestazione di poesia rivela un carattere suo, che va distinto in qualche modo dalle illustri opere di filosofia.

Ma, se concerne forse la modalità, la distinzione tra poesia e filosofia non concerne la materia del pensare: alla maniera del verso, si può ben formulare una ontologia. Lo fecero i padri del pensiero – sebbene si tratti in questo caso, di cui qui si discute, di un pensiero, sebbene chiaro, reso attraverso una scrittura a volte sconcertante nella sua minimalità, nella sua icastica enunciazione, comunque di un far versi ben diverso dal respiro potente e assertivo di Parmenide, come ci perviene dopo venticinque secoli.

E in tale modalità poetica si pone una tesi della verità opinabile, incerta come il suo oggetto e pur dotata di una sua verosimiglianza, doxa, come ritratto del mondo del divenire che qui si riconsidera (a buon diritto) con-fuso come tutt’uno con la dimensione dell’intrasmutabile. Di Pietro ha interpretato in versi, proprio com’era nata, la posizione eleatica: se l’essere è, esso non può che essere così – in questo caso pensare l’essere deve fare i conti con il percepire-pensare-dire il divenire e con la filosofia e fisica (cosmologia) contemporanee.

Se Platone già aveva considerato la dimensione del non-essere e del divenire come unite-e-distinte da quella dell’essere, quale differenza farà di questa poesia di Elea un pensare, in pieno ventunesimo secolo? Ecco: a mio avviso, proprio il fatto che, mentre Platone con ogni evidenza mosse con insuperata grandezza nella dimensione del pensiero puro, Di Pietro adopera poeticamente, con un fermo pensiero sotteso, con sottigliezza teoretica più e meno evidente, le immagini-simbolo della notte e del mondo fenomenico e le mantiene, insiste su quelle per tutta la durata del suo libro. Sicché Ventre può dire che l’essere che ne risulta è “torbido, not­turno, ctonio e celeste insieme”. Aggiungerei: se, nei cenni ripetuti alla bellezza del mondo che è sotto gli occhi, si può accostare questi versi al grande pensiero post-parmenideo, bisogna pensare a certi passi del Timeo platonico. Peraltro sembra ritornare la mai dimenticata Scienza nuova del grande napoletano, Giambattista Vico, che sostenne l’importanza delle immagini per la conoscenza e per il pensiero dell’origine[4]:

Guardo le ombre in fuga

mentre abbruna.

Il mio viso una ruga.

 

La luna è a metà viaggio

la marea bassa.

 

Un abbaglio l’eterno presente

l’ora che non passa (p. 40).

La poesia rivendica una sua posizione antichissima e fondamentale nell’ambito della conoscenza, anteriore alle stesse grandi religioni, per non dire della filosofia.

I mezzi propri alla poesia sono qui in Di Pietro molto presenti e attivi: il pensiero che si serve dell’ immagine e del simbolo invece della pretesa che si pensi solo attraverso la spiegazione e l’argomentazione; la parola che usa la fulminea illuminazione, la scrittura scarna, icastica – ciò che Orazio già aveva codificato due millenni fa – , che evita con cura ogni inutile espressione e fiuta con sospetto ogni presenza di retorica fine a se stessa. La poesia vera può essere forma eccellente del pensiero, pensiero poetante e non canto fine a se stesso.

A conferma d’una serie di indicazioni presenti nella storia del pensiero, ma in quel suggerire indicando e affascinando, da sempre proprio della poesia.

(Carlo Di Legge)

 

[1] Cfr. Metafisica, V, 7, 1017 a 9; VI, 2, 1026 a 32-b 2).

[2] Simplicio, Phys, 179, 31, in I presocratici. Frammenti e tesimonianze v. I (…), trad. Pasquinelli, Einaudi 1976 (1958), pp. 235-6.

[3] Per sostenere che, nonostante quel che potrebbe sembrare ad una lettura di superficie, il poema non pertiene all’ambito (che vien precisato) dei neolirismi del Novecento, e nemmeno somiglia al neo-orfismo sui generis di Campana.

[4] Dire, comunque, che “Dall’orizzonte (della molteplicità colorata, sonante, percepita, n.d.r) /è scomparsa la parola” (p. 26), e che messa di fronte a questo spettacolo mirabile della natura “(la parola, n.d.r.) non ha suono” (p. 51) è comprensibile ma non può essere tutto. D’accordo, “Il pensiero arriva tardi” (p. 66) ma occorre aggiungere (come fa Di Pietro) che il pensiero-parola dà voce alle cose senza parola. Ciò sottintende la distinzione, consolidata a quanto pare ben dopo Parmenide (ma c’era già nella sofistica!), tra essere (e, in questo caso, insieme, divenire), pensiero e parola. Se si afferma, come fa Di Pietro, che il pensiero-parola dà voce alle cose mute, e così ottiene per esse la Dike, allora si ammette che il pensiero dell’essere e il silenzio stesso, se detto, se divenuto effatum, non possono fare a meno della parola. “La parola è nulla” (p. 64), certo, può darsi in certi casi; ma detto e non detto vanno intesi anch’essi come coppia fondante, come compresenti, in reciproca tensione-azione. Altrimento come intendere “Chiede giustizia/e rispetto alle mie mani/il mondo che non ha parola” (p. 33).

È uno stato d’animo, questo in cui “Farei a meno del pensiero” (p. 71): ma se il pensiero arriva tardi (cit., p. 66), e per certi aspetti può venire equiparato alla petulanza delle cicale (p. 68), non si può non pensare e dire, anche qui, nella stessa maniera breve di Di Pietro, che “La norma della luna/è il divenire” (p. 70) mentre l’essere sarà “cullato nel mondo” (p. 64).

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