26 Settembre

Francesco Carbone e Mariangela Neve: Mollo Tutto

Francesco Carbone e Mariangela Neve

Allo studio21 di Salerno, via Botteghelle, il 7 settembre 2011

innamorato del vento,/intimorito dal male

L’associazione del carbone e della neve risulta evocativa. Allo studio21 di Salerno il 7 settembre gli artisti, compagni nella vita e da tempo associati nelle occasioni pubbliche, ma solo da questa volta insieme ufficialmente, hanno dato luogo all’ultima performance, prima del trasferimento a Berlino.
 In uno dei volantini disposti per l’occasione alla sede di studio21 si spiega il motivo dell’andare: il senso dell’accresciuta precarietà, in “una terra malata che non fa altro che salutare e abbandonare …” e che finalmente ci si risolve lasciare per “un alito di speranza”, che tuttavia non impedisce che si continui a restare “incastrati”.
 Francesco Carbone ha sviluppato, già prima del liceo scientifico frequentato, la manualità sul legno già costituita e mutuata dal padre falegname; lei viene dal liceo artistico. Si sono incontrati all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove entrambi hanno studiato pittura. Difatti lui ha diverse personali di pittura all’attivo ma è divenuto un performer alla maniera degli anni Settanta, come precisa – e comunque potrebbe anche tornare a dipingere; lei, pur avendo conseguito in pittura un certo successo, con lusinghieri piazzamenti in manifestazioni a carattere nazionale, ha poi continuato a disegnare ma ha deciso di esplorare le possibilità della fotografia a partire dal momento in cui non superò quell’esame: a una personalità piuttosto riservata, infatti, in lei corrisponde la spinta a misurarsi e a raccogliere le sfide. Lui non firma alcunché, di ciò che produce – lei firma tutto; da lui emana qualcosa di eccessivo e di pervasivo; spiega che un elemento della sua arte consiste nella spersonalizzazione – una insospettata venatura mistica, forse, nell’arte? In connessione con questo pensiero: certo, le ultime performance fanno pensare a un elemento auto-punitivo, ma in un contesto del tutto laicizzato. E cosa si tratta di affrontare, forse esorcizzarlo, allora? Quale sarà il male? Forse l’imprevedibile, attraverso la messinscena della sofferenza che la continua imprevedibilità comporta.
 Provocazione e sfida stanno comunque alla radice della personalità artistica di entrambi. La reattività a una situazione come quella della terra malata è la vita stessa e passa attraverso la provocazione. Molto di ciò che essi creano ricorda qualcosa del movimento dada.
 Come si manifesta tale provocazione nelle loro performance, tra cui questa?
 Nel caso di mollo tutto, lo strumento consiste in una specie di gigantesca intelaiatura metallica di tre metri di altezza per uno e mezzo, collegata al moro con spago e chiodi nella parte superiore in modo da potersene discostare di poco, con una struttura di molle e fasce di stoffa rigida. Di fianco, un tavolino con una base molto pesante e due ripiani collegati alla base e tra loro con molle, per cui, se la base si sposta con difficoltà, il piano superiore risulta così mobile da inclinarsi e rovesciare continuamente gli oggetti che contiene. Su una parete scorre di continuo un filmato realizzato dagli artisti, sugli argomenti impazienza e precarietà, che mette in scena un paio di braccia, con mani e con i loro movimenti tra di loro e sulle braccia, come lo sfregarsi e il grattarsi in tanti modi diversi. Alle pareti, cartellini con scritte che motivano il mollo tutto, o del tipo l’arrivo è una partenza.
 Mariangela con le sue foto è il complemento necessario. Molto è lasciato al caso, poche cose sono pensate poco prima dell’inizio. Casuale, la luce dei faretti dello studio. Casuali, i commenti eventuali degli spettatori. Sono in vendita barattoli di latta numerati (1-77) ed etichettati, con qualche invenzione in giochi di parole di Mariangela e di Francesco: i barattoli doubts (dubbi) con un altro barattolo per raccogliere i dubbi, in bigliettini eventualmente scritti dal pubblico. 
 Francesco inizia incastrandosi nella struttura, tra molle e strisce di tessuto che collegano i punti opposti. L’artista la tiene costantemente in un equilibrio che di continuo va ritrovato dal corpo e dalla sua struttura nervosa e fisica. Si tratta di una pesante intelaiatura, quindi di un esercizio di estremo impegno, perché protratto nel tempo. La chiave, dice Francesco, consiste nel ritrovare continuamente l’asse, che passa per il proprio stesso corpo: la durata è di circa tre ore (19,30-22,10) con effetti che arrivano alla soglia della perdita dei sensi. Ovviamente nessuna sequenza d’azione è preordinata, il margine dell’imprevisto è moto ampio.
 Analoghe, due precedenti occasioni. La prima, a marzo, è consistita della tesi di laurea di Francesco, dal titolo Essere Schiele, o un autoritratto del pittore (descrizione???): nell’occasione Francesco racconta di aver perso oltre venti chili di peso. L’altra, a palazzo Genovesi, dal titolo manifesti confusi – in cui l’artista è restato per ore in una camicia di forza. Anche in questo caso, egli ha posto in scena un certo tipo di costrizione e la sofferenza fisica che essa comporta in chi è costretto. 
 Si menziona anche il filmato Medusa, in cui dapprima i polsi intrappolati si liberano e poi una mano assume la forma del celebre organismo marino: ci si trova di fronte a due menti piene di progetti. 
 Cosa vuol dire la modalità espressiva scelta?
 L’arte deve, in qualche suo modo, singolare come la personalità dell’artista, rappresentare la vita. 
 La vita si presenta frammentata e confusa. Così nella plaquette, il libretto di poesia di entrambi (Francesco le poesie, Mariangela le foto). Parole che recano il titolo in rosso e si presentano come carbone di scrittura su bianca neve dei fogli; foto sensuali con il colore della pelle, dal rosa dunque, al rosso; e di nuovo il bianco e il nero con tutte le gradazioni del grigio. La poesia come la fotografia sono adeguate alla vita in quanto mirano a produrre effetti di spiazzamento sul lettore; si è già detto dell’imprevisto, di cui sono tessuti i giorni. La ricerca sembra inseguire continuamente i significati, senza peraltro trovarne che pochi, oppure ombre e riflessi di senso, evocazioni. La vita è insensata. Solo di rado perviene al significato compiuto. La poesia è specchio d’una realtà destituita di senso: imprevedibile e insensata, come la vita.
 Il titolo – anime di neve, polvere di carbone – nella prima parte sembra rinviare alla purezza della ricerca senza compromessi, al candore. Nella seconda, ho già detto, vedo l’allusione alla scrittura.
 Il candore non manca di un proprio assoluto rigore, come ogni poesia che si pretenda vera: “isterica e precisa/un’infermiera di legno bagnato./ terrorizzato e solo/il malato riposa ammuffito …” (p. 28); né di ironia – come p. e. “beati gli invitati alla casa del signore/il lupo e la sua coda” (p. 41), oppure di sarcasmo “sputo via qualche patetica,/puerile, preoccupazione poetica./escrementi di potere.” (p. 36). Del disincanto: “trasparente e lontana,/la coda di una sirena” (p.36). Il gioco a volte visionario, al limite del senso e del non-senso, riesce bene, sulla maniera di alcune espressioni: “inconsistente e morsicata,/un’inverosimile/sorpresa saporita” (p. 27).
 Tra poesia e performance, dunque. La rappresentazione della vita è questa: non si è liberi, se non a prezzo di ricreare istantaneamente equilibri tra pesanti vincoli; comunque relativo è il movimento, perché sempre si resta tra condizioni dettate da forze. Il senso della forza dell’uomo e della sua libertà, in questo caso, viene individuato molto meno nell’intraprendere, molto di più nel sopportare. Perché la durezza della vita riserva un incalcolabile margine all’irruzione del prevedibile imprevisto.
 Come se gli artisti ci dicessero: sappiamo di non poter sapere precisamente cosa accadrà domani, ma almeno sappiamo che in ogni momento qualcosa può accadere. Detto molto diverso dall’altro: sappiamo solo che nell’istante può accadere qualcosa, anche se purtroppo non sappiamo mai prima cosa accadrà – il secondo periodo ha una intonazione pessimistica, il primo rileva una venatura realistica, perché riserva all’uomo qualche possibilità di creare e ricreare continuamente la propria posizione nei mutevoli equilibri del mondo. Da variazioni lievi del tono dipende, nel tempo, la variazione dell’atteggiamento e dell’intenzione con cui ci si pone dentro il mutamento.

Letto 1657 volte Ultima modifica il Lunedì, 05 Giugno 2017 15:21