21 Novembre

I satiri di Alfredo Raimondi. Le selve interiori e il problematico venire in luce dei loro abitanti.

Pandemonio.

La mostra di pittura di Alfredo Raimondi allo Studioventuno di Salerno dal 17 novembre 2013

La mostra-progetto "pandemonio" si tiene a Salerno da domenica 17 novembre, allo studio ventuno di Elena Di Legge e Francesco Petrosino. Si tratta della prima volta ufficiale a Salerno di Alfredo Raimondi, in arte Mojo (www.mojotattoo.net), da Manocalzati, in provincia di Avellino. La parabola artistica di Alfredo Raimondi è folgorante, cioè coronata da pieno successo, non tanto nell'impervio campo della pittura, per le ovvie e note difficoltà in cui s'imbatte oggi il pittore, ancorché talentuoso, con il mercato e la connessa critica d'arte, quanto nel mondo del tatuaggio, dove il successo è determinato dal contatto diretto con il pubblico. In quest'ambito Alfredo ha vinto, dal momento che il suo nome è presente in tutti i maggiori cataloghi esistenti, la sua persona viaggia a livello planetario attraverso le convention dei tatuatori e il suo suggestivo studio, al centro storico di Manocalzati, è meta di una specie di pellegrinaggio, con clienti che si prenotano a mesi di distanza da tutti i punti del mondo.

Per questo aspetto Raimondi, come tatuatore, rientra nella nuova teorizzazione sull'arte "di basso profilo" oggi in Italia teorizzata come new brow art, che rimbalza dagli Stati Uniti all'Europa e anche qui si afferma, con proprie caratteristiche, compiendo una buona circolazione tra le sponde dell'Atlantico.

Dunque non si scoprono adesso le sue qualità di lavoro sulla pelle: il successo è decretato non dai galleristi né dai critici d'arte ma dalla gente che si affida alle sue mani. Si tratta invece, in questa mostra, di parlare soprattutto del suo lavoro come pittore.

Ne conversiamo nel tardo pomeriggio di domenica 17 novembre, in attesa dell'inaugurazione della personale allo studioventuno, mentre con la moglie Loredana – entrambi vestiti di nero, un po' dark, alla maniera di molti esponenti della tattoo art, ed Elena e Francesco Petrosino, si affettano profumatissimi salami e formaggi con pane, tutto portato da Avellino. Si aspetta il pubblico, insomma, in un modo seducente.

Vengono esposti quindici quadri, di cui due fanno già parte di collezione privata, sebbene sempre preparati in vista della mostra; dunque solo tredici sono a totale disposizione di possibili acquirenti, e quindi riportati in elegante catalogo, a edizione limitata, preparato dallo studioventuno.

Si deve allora parlare della serie dei ritratti panici (che danno quindi origine al titolo della mostra: dal latino pan-daemonium, dunque pandemonio). Questa pittura trae continuamente spunto dalla realtà, rubando istantanee da volti di contadini, di uomini incontrati per strada, di amici, di clienti: in ognuno di noi si nasconde o si vede – dalla sua apparenza, dal visus, appunto – un démone che è presente e nascosto, come i satiri si nascondevano, perlopiù negandosi all'esser visti, come la parte relativa alla pudicizia e alla impudicizia, infine come qualcosa di cui aver vergogna. Trae altresì spunto dal paesaggio, dai luoghi dell'Irpinia, terra di vita e d'esperienza ispirante, perché l'arte e lo spirito portano sempre, nella figura e nell'immagine, il marchio della terra, come afferma e mostra senz'altro Giambattista Vico. Anche un'opera di filosofia porta un debito ai luoghi: e così la poesia in immagini di Raimondi, che ama, quando è in Irpinia, il contatto fisico alla terra, agli alberi, alle querce, prima attraverso le stesse mani e poi con ciò che le mani e la mente, insieme, creano.

Il tema è sempre lo stesso, declinato nello studio di tredici fisionomie maschili (le ninfe, le driadi, le amadriadi, i correlati mitologici femminili, sono ovviamente presenti, in modo implicito). Tema espresso in carattere oscuro e un po' demoniaco (si ricordi che i satiri, Pan alla testa, erano divinità umano-caprine, di personalità in deciso eccesso dal punto di vista sessuale: la metà inferiore del corpo di capro con zoccoli, uomo il busto e le braccia, e la testa, salvo per le ambigue orecchie e un più o meno robusto paio di ritorte corna).

Sono convinto che in questa mostra Alfredo Raimondi parli, in ultima analisi, di sé e del circolo interno/esterno che lo lega al paesaggio dove è nato e trova radici, e a cui è del tutto legato; dunque egli intende rappresentare il suo proprio lato oscuro come quello di tutto il maschile, in quanto maschile, e viceversa, il lato nascosto, ma non troppo, del maschile, viene in evidenza anche nella propria personalità, come in quella di tutti gli uomini. Posto che si tratti solo di parlare del genere maschile; ma non ne sono affatto certo, perché Raimondi avrebbe potuto ritrarre ninfe e altre figure femminili dei boschi, ovviamente.

Eppure, in apparenza all'opposto, lui è una persona affabile, si mostra come una specie di orco buono, traboccante di energie e iniziative, e, come si evince dalle opere, di creatività. Alfredo si rivela essere persona simpaticissima e sensibile, molto ben disposta a parlare di sé e della propria arte, attenta anche allo scambio con l'interlocutore e alle sue sfumature, molto solido – una vera quercia anche nell'aspetto – e per niente decadente, salvo forse che nel modo di vestire, contadino-intellettuale (ma si tratta di raffinata scelta culturale, ormai, sovrapposta a coincidere più o meno perfettamente con l'origine propria e dei suoi).

I ritratti, come ho detto, propongono volti di satiro, che guardano da diverse angolature prospettiche, complete di fattezze del tutto umane, più corna da capro e orecchie allungate, in modo variabilissimo e veramente interessante e coinvolgente, offrono tuttavia altrettante essenze, che consistono nell'anima o personalità di ognuno dei soggetti ritratti.

La penetrazione psicologica di queste immagini del demoniaco, del lato oscuro dell'uomo, e quindi dello stesso autore come di chi scrive e di chiunque, come specie dello intus legere, è molto forte. Il momento proiettivo con l'arte di Raimondi rispetto al cosiddetto fruitore funziona in pieno: si viene coinvolti da lui e dal suo immaginario. Risultato tanto più stupefacente in quanto l'autore è autodidatta, o meglio, di formazione avvenuta nelle botteghe d'arte invece che nelle tradizionali scuole: ma è evidente che la passione per la pittura lo ha sorretto in tutto il suo percorso e lo guida, avendo egli idee molto chiare sulla scuola (come apprendimento) a cui deve sottoporsi l'apprendista (ai suoi alunni egli dice: nella matita la verità).

Affascinante, questo modo di concepire l'invariabile che individualmente si declina – ovvero, nel caso di Alfredo, l'aspetto oscuro e demoniaco dello spirito, aspetto d'ombra, enfatizzato teatralmente e drammaticamente – ribadisce l'artista – nella infinita mutevolezza delle personalità; un segno che lascia trascorrere ogni emozione sul volto dell'uomo-capro, imprimendovi tanto l'età e le rughe quanto la passione dominante, sia meno o più negativa e pericolosa. Nello studio, egli ricorda, sono impresse le parole: visus dubius veritatis, a cui possiamo dare diversi sensi, a partire da due essenziali: che nell'apparenza si presenta, pur ambiguamente, la verità; oppure che nell'apparenza la verità si nasconde, ottenebrandosi e occultandosi. Infine: che nell'apparire si presenti un alcunché, che rimanda alla verità, sia pure nascondendola, oppure mostrandola, e quindi che nell'apparire (visus) una nostra, umana verità di qualche tipo sia implicita, su questo non v'è dubbio.

La competenza di Raimondi in pittura, è appena il caso di ricordare, è di necessità la stessa che nel tatuaggio, fatte salve le necessarie differenze di contesto.

Forse non si vive di pittura, e la vita è sempre esigente e madre severa; o, meglio, se di sola rappresentazione pittorico-figurativa (Raimondi potrebbe essere un pittore iperrealista, egli dice di sé, e sono d'accordo: ne avrebbe le competenze) "non si campa", e invece di tatuaggio, a patto che si sia così bravi, "si campa": "di pittura si vive", invece, proprio nel senso che, in questo caso, la pittura soddisfa in pieno le esigenze dello spirito.

L' artista, dunque, formatosi nelle botteghe d'arte come i maggiori pittori dell'antichità e del Rinascimento, ha insieme condotto una ricerca formale rigorosa e autonoma, anche adottando modelli nell'antica scuola fiamminga e quindi nella tecnica della pittura a olio, come si vede da queste composizioni: su tavola, su tela, su cartoncino telato. La prevalenza dei toni cromatici cupi – ottenuti non attraverso il nero assoluto ma come risultante di mescolanze altre – e la predilezione per le sembianze umane irregolari, stravolte, invecchiate e minacciose e raggrinzite dei volti, o anche talora estatiche e angeliche, confuse con il consueto corredo animale della mitologia classica, stanno a significare che in ogni personalità, per quanto luminosa, sta il lato oscuro, ma forse in questo più pienamente risiede l'aspetto umano e terreno, il lato che c'intriga e ci lega alla terra e a questa vita, laddove l'aspetto di luce si presenta in fondo astratto e meno "pittorico", allo stesso modo in cui certuni (molti) ravvisano, nell'ambito della Commedia dantesca, una parte più drammatica e forte (di chiaroscuri, appunto) nell'Inferno dei dannati invece che nel teologico impianto del Paradiso. La presenza di una pennellata rapida, sebbene precisa e di vistose sgocciolature di colore rappreso sulle tele, oltre che una rappresentazione realistica ma, s'è detto, non –iper, intenziona il riferimento a un non-finito del quadro, che non è mai troppo perfetto – bensì inconcluso. Ma anche del reale, rispetto alla cui infinita trascendenza, che ogni volta rimanda ad altro, il vero è sempre imperfetto e non compiuto, allo stesso modo in cui, forse, necessita diffidare delle apparenze troppo belle o concluse, secondo una delle versioni del visus dubius (in questo caso: diffidenza) veritatis.

L'arte di Raimondi sceglie, in conformità con i suoi intenti, le ombre lunghe (in chiave, mi sembra, di espressionismo del tramonto) e quindi i caratteri della stagione autunnale (che in esperienza e poesia a mia volta preferisco, benché nessuna cosa che viva nell'esperienza sia da scartare).

Alfredo Raimondi, nel puntare alle zone dubbie e oscure, in vizio e difetto, selve dell'interiore e loro nascosti umbratili abitanti, oltre a recuperare consapevolmente un collegamento a quelle zone spirituali del Novecento e del contemporaneo che tornano alla mitologia greca per rappresentare la psiche e i suoi ritorni – Jung in particolare e quindi il Saggio su Pan di Hillman – realizza la critica alla civiltà delle immagini, che ha proposto e propone in primo piano, almeno in certi limiti, oggi, e sia pur nella variabilità dei canoni del bello, l'esaltazione di ciò che è esemplare.

Letto 2879 volte Ultima modifica il Lunedì, 05 Giugno 2017 15:23