giovedì 14 giugno 2018
Hanno scritto sul "Multiverso"
Mauro Ferrari – Per “Multiverso” di Carlo Di Legge
Puntoacapo Editrice, 2018
Presentazione di Milano, Libreria Popolare, 15 giugno 2018
Per cosa si scrive la poesia? Solo per un insopprimibile desiderio di scavo interiore, che magari porta ad esternare – a rendere pubblici – i propri reperti (e referti) o per andare oltre, capire se stessi e per provare a sondare un rapporto con il mondo, e in questo sforzo giungere a un tentativo di interpretazione del mondo stesso? Pongo questa domanda perché il libro di Carlo Di Legge mi appare quasi muoversi in direzione contraria a buona parte della poesia, odierna e non solo, che si muove dando per assodata una visione diciamo newtoniana del mondo fisico (che per inciso oggi più non tiene) e lì situare un Io più o meno conoscibile. Questa è comunque la lectio di tanto minimalismo, in barba non solo ad Einstein, che sarebbe il meno, ma a Heisenberg, a Gödel, a Plank, Schroedinger; e comunque trascurando tutte le acquisizioni (in qualche armonia con le precedenti) che vanno da William James, a James Joyce, Virginia Woolf e via elencando.
Multiverso invece, (termine non a caso coniato dal filosofo e psicologo William James) rappresenta un grande e serio sforzo di situare la storia dell’Io e dell’uomo in un contesto fisico che tenga conto della scienza moderna, che frammentano il mondo fino a renderlo inconoscibile, indecidibile, un puro fascio di probabilità (e possibilità) in cui lo spazio e il tempo in cui ci muoviamo appaiono – in curiosa armonia con un certo pensiero orientale – inafferrabili, ben oltre la fallace immediatezza newtoniana. Sappiamo dalla fisica moderna come nulla sia più difficilmente definibile di queste due entità – se poi sono entità.
Secondo questa ipotesi a metà tra la scienza e la filosofia, lo spaziotempo è basato su dimensioni parallele in cui ogni evento può replicarsi con infinite varianti, e quindi la nostra vita non è altro che illusione: “non a tutti/si mostrano le cose che solo alcuni vedono” (p. 14), dice Di Legge. Questo autorizza una visione della poesia (e della funzione del poeta) laica e scevra di misticismo, ma netta: se “l’uomo che spieghi l’apparire non è nato” (p. 16, cosa che diceva già Amleto, in fondo), sarà compito della poesia (e della scienza, ovvio) almeno provare a squarciare il velo.
Nell’illusione che dobbiamo chiamare realtà (“un vuoto che a sua volta guarda l’altro”, p. 22) cade ogni distinzione fra passato e presente (e forse futuro), e quindi ne risulta che la memoria è sempre viva e presente in noi. A proposito torna in mente la concezione della memoria in Wordsworth, ma soprattutto L’infinito: “e mi sovvien l’eterno, /E le morte stagioni, e la presente/E viva, e il suon di lei”, a mostrare una consonanza ben precisa ma anche come i poeti, in fondo, abbiano spesso intuizioni che precedono le scoperte scientifiche.
Cade allo stesso modo ogni barriera spaziale, e con essa le barriere fra i viventi si indeboliscono – ed è chiaro il portato umano di questo assunto, che emerge nel peso che i sentimenti hanno in questo libro: basterebbe citare Stanza di passaggi (p. 25), in cui questo casuale e folle essere nel mondo è proprio la ragione per provare una forte pietas: “Essere qui, nel punto dei passaggi/è vedere te stesso, e gli uomini,/come nuvole sospinte e scompigliate/dal vento” – un sentimento davvero fratello dell’approdo leopardiano.
Anche incontrare l’alterità, sia in senso personale che universale, e sondare il rapporto con l’amata è confrontarsi con l’indeterminatezza dell’Altro: troviamo testi e accenni a storie d’amore di cui si va a toccare la quota di incomprensibilità (si vedano ad esempio Nella notte di nascita, p. 56 e Luporiccio, p. 57).
“Le porte dell’altrove sono ovunque” (p. 12) e “Il mondo è una basilica evidente, misteriosa” (ivi), dice Di Legge e questo diventa uno stimolo conoscitivo, perché è forte nel poeta la spinta a porsi domande fondanti, in una laica ricerca di dialogo almeno con la possibilità di un Dio, sulla scia di un certo Caproni, ad esempio. “Ho elenchi poveri della trascendenza” (p. 56) afferma Di Legge, ma questo non sembra far altro che stimolare la ricerca.
Un altro aspetto che mi sembra un traguardo di questo libro, e che rischia di passare inosservato, è – paradossalmente – la sua normalità stilistica; in effetti, una visione tanto originale, poteva aprire le porte a sperimentalismi, orfismi e altro. Di Legge riesce invece a mantenere il tono e il timbro sempre nelle vicinanze del parlato ritmico, reso in un verso molto libero e trasparente.
(Carlo Di Legge, giugno 2018)
Caro Mauro, sono stato veramente lieto di trascorrere insieme qualche ora, tra presentazione del libro e cena, a Milano. Come una rimpatriata per me, ma in modo di-verso.
Rispetto alla tua recensione, di cui ti ringrazio, e raccogliendo solo alcuni degli spunti che vi sono presenti, osservo:
- che anche il minimalismo degli altri per me andrebbe benissimo, perché infine lo vedo come una "descrizione in fenomeno" dell'apparire; perché no? Solo che magari altri non sono del tutto consapevoli, come lo era il grande Carver (che comunque non inventò il minimalismo, la storia la sappiamo; ma i racconti e le sue poesie, sono grandi);
- che, comunque, a me interessava meno la resa poetica di una dimensione che è tra scienza e filosofia, come scrivi, di quanto non intendessi fare poesia alla maniera in cui credo: pochissima o nessuna concessione alla retorica, ma immagini e significati, quindi emozioni, quelle sì, ma in strettissima e direi rigorosa connessione a immagini e significati, che nel nostro mondo sono talmente evidenti, e così connesse alle emozioni, da non richiedere tanto uno sforzo d’ìnvenzione, quanto un gran rigore descrittivo;
- di fatto, a mio modo d’intendere, le dimensioni parallele esistono, "ci sono", come sostengono o nonostante quanto dicano fisici e matematici: qualsiasi psicoterapeuta lo sa, che basta che in più d’uno descriviamo la stessa partita di calcio, e le partite non sono più quella, ma diventano molte;
- "un vuoto che a sua volta guarda l'altro": si tratta ancora di linee delle mistiche oriente/occidente, perché questo, infine, siamo. Ma certo (seconda pagina) che i poeti vedono; non meno dei fisici, spesso assai più felicemente (l'abissale Rilke, diresti tu; non conosco bene Yeats, vediamo; l'indeterminatezza dell'altro come la mia); e poesia e filosofia come descrizioni del mondo coincidono, a loro maniera, con l’intenzione della scienza. Non dimentichiamo che poesia è anche filosofia;
- e tuttavia connessioni tra gli altri e noi ci sono, oltre ciò che si vede, e sono insondabili. Certo la questione teologica è oggi divenuta ciò che a qualunque titolo chiamiamo dio; ma crediamo di vedere ovunque strane coincidenze (sincronicità) e l'entanglement quantistico in qualche modo ne confermi la possibilità, anzitutto su quella scala, s'intende.
- hai notato bene anche la "normalità stilistica" del libro. Credo che le scritture aliene siano una questione tutta italiana. Facciano come vogliono, la poesia è democratica e nessuno può imporre a qualcun altro come intenderla. Per me, se c'è un modello, è il parlato. Devo poter leggere poesia come se parlassi del più e del meno, almeno in una importante accezione di poesia delle mie (non molte). Forse pure le istruzioni a qualcuno sul governo della casa, possono fare poesia. Dipende. Sì, questa concezione dello scrivere è importante per me.
Carlo
Rubina Giorgi su “Multiverso” - Puntoacapo Editrice, Pasturana (Al) 2018
“Il mondo è una basilica evidente”. Come facciamo a non vederla?
C’è, in questi componimenti, un’ansia di evidenze, che produce intenso dialogare e ascoltare, domandare e offrire. E occorre farsi pellegrini, nomadi, per sciogliere l’ansia in evidenze visibili, in immagini empatiche e, implicitamente, frequentabili e amabili. Ne deriva un confronto diretto, pacato quasi sempre, paziente in attesa, con l'esperienza del mondo – non solo con i propri simili da parte dell’esperiente ma pure con le cose, naturali o costruite dagli uomini, con gli elementi e gli animali e le piante. “Aspetti silenzioso come gli ulivi e i capri” ma anche “Noi siamo come una città: / periferie, orizzonti, / viaggiatori e avventura,/ orientarsi e perdersi.” Desiderio di misurarsi con la vastità, tutta la vastità, che non è universa ma multiversa, in essa portando e contemplando, e altresì sondando, le diverse creature; fors’anche ad essa abbandonandosi. Cederle e anche resisterle.
La molteplicità, i molti versi del cosmo sensibile, simultanei e mutevoli, trasformano la realtà in apparenze, che appaiono e dispaiono, e sono tempi che vanno e vengono … Ed è in questa animata vicenda di forme e tempi che nascono, o meglio insorgono, i guizzi poetici compendiosi, un rapido vedere a contrasto col ritmo pacato consueto : “Apprendi a lasciare. / Togli piuttosto che aggiungere, / riduci all’essenziale. / Studia ciò che resta per sapere / se farne a meno.” C’è esigenza di severo abitare presso la luce duramente – s’indovina – conquistata; un abitare che si pasce tuttavia anche di tenera parola. Aleggia su tutto come un velo di sentire materno, a custodia della conoscenza che si forma, quasi il multiverso che ci travaglia avesse bisogno nel farsi presenza di riposare su di esso.
Bisogna tener conto di una notazione del poeta-filosofo, premessa alle sezioni poetiche: “Non so l’essere: ma l'apparire del mondo è multiverso. Voglio dire che infinite e mutevoli descrizioni ne sono possibili”. Ciò comporta che le partizioni tra essere e apparire si attenuano, o perfino cadono. Una volta accettate le prove cui il multiverso ci sottopone, il mondo lievita in forme innumerevoli – o esaltate nel colore (a volte benefico secondo l’autore) od ondeggianti in versioni invernali, in cui la luce diminuisce e avvengono passaggi d’incertezza e lontanante memoria di un altrove già vissuto. E allora tutto può confondersi verso l’indifferenza, una superiore indifferenza, verso un’ombra in cui è dato presumere la presenza di dio, in uno spazio che si fa sentire come “vento di dio” e in cui “le galassie si sfilacciano come pensieri solitari”: “In lui l’oriente del vento o la sua fine, / che si porta le certezze dei bambini / e le voci dei morti. / In lui le voci o le rose che verranno. / Dio dev’essere ombra d’indifferenza.” Qui i molti versi del mondo, per lo più tra loro avversi, si ricompongono finalmente in parità tra le essenze di vita e morte, in perpetuazione di dialogo con le potenze e i viventi già rapiti dall’invisibile.
In proposito, occorre pensare che le esperienze acquisite da Carlo nei suoi viaggi, nel pellegrinare in specie tra le Americhe e le Indie, abbiano segnato in modo impressivo questo Multiverso . Un esercizio di poesia, un poetare, che è divenuto meditazione, più mediato rispetto alla maggiore immediatezza delle fasi poetiche precedenti. Che è divenuto ascesi in scrittura, o, direttamente, scrittura ascetica che dissolve le separazioni tra i vivi e i morti, tra gioia e dolore, il possesso e l'abbandono.
(Carlo Di Legge, giugno 2018)
Grazie per la tua bella recensione, Rubina.
Ho ricercato non l’essere, infatti, ma i significati dell’apparire, importanti per la nostra vita.
L’esperienza del multiverso è nostra esperienza, il singolare che pure ci accomuna: elenchi (o liste?) della terra, e una specie di oceano. Il multiverso precede e segue nell’ordine del tempo il pellegrinare sul pianeta e su altri mondi e ne è quindi segnato.
La percezione dell’immenso si fa minuzia di microscopico vedere, e s’allarga d’improvviso e si restringe, secondo un pulsare imprevedibile. E la modalità che dici pacata, certo, si fa improvviso scatto, e poi ritorna.
La descrizione del mondo delle differenze s’apre alla visione della divina indifferenza, poi ritorna al mondo delle differenze, secondo imprevedibilità e discontinuità.
La diversità dei tempi si fa “ad un tempo”, e questo tempo è un percettibile nulla.
L’anticipazione, l’intuizione che furono spiegazione, tentazione della filosofia ma non della poesia, finalmente divengono saggezza della poesia e della filosofia.
Le letterature, la poesia detta universale, sono descrizioni d’apparire.
La saggezza si chiama: descrizione dell’apparire. La descrizione del mondo dell’apparire come evidenza di contrari è soltanto un modo, che non è l’unico modo di descrivere.
Rita Pacilio su “ediletteraria.wordpress.com”
Multiverso. Di quel colore che soccorre, a volte di Carlo Di Legge – puntoacapo Editrice, 2018 – imprime il suo segno già nella dedica: Quello che siamo e che saremo sempre può bastare, anzi è tutto quello che serve. Partire, dunque, dalla testimonianza intima, dalla personale identità, per evitare che possa sfuggire la consistenza della nostra ombra/presenza nel mondo. Dunque, cos’ero? Intanto, / quel che non ero, / un vuoto che a sua volta guarda l’altro, / ma dalla prospettiva dell’assenza. Un cammino, un’espansione dell’io che vaga con diligenza e prorompente energia al fine di osservare il reale e la memoria/ricordo dell’altro, da ogni prospettiva. A volte la memoria è come certa luce: / si riverbera in pace. La poesia non si affranca con facilità dalle altre scienze, in questo caso la filosofia, ma se ne nutre dimostrando il bisogno dell’interrogazione, del dubbio, senza mai attenuare il rischio della scelta. Nell’introduzione l’autore lo dichiara, lo svela: La poesia, come la libera filosofia, descrive il mondo sempre cangiante della vita. Eppure la descrizione non basta: la ricerca dei mondi interiori, e di quelli esterni a noi stessi, apre la strada, irrimediabilmente, a coinvolgimenti analogici, trasversali alla contemplazione. Ma puoi credere inoltre / che di continuo l’invisibile divenga / fuoco d’ombra e di colore, e trasmigri l’inaudito / in suono e voce. / L’edificio del mondo è multiverso. Ecco l’esercizio dello sguardo penetrante, spesso insondabile, della poesia che armonizza il colore della trasparenza con il fondo della superficie. Il colore, e resterà calore a lungo – Amore è colore. Nome sotto cui s’intendono vissuti infiniti e trame preziose, tessute di vita individuale e collettiva. La ricerca dell’assoluto che verifica la presenza delle tensioni: La verità che appare ogni giorno / sembra priva di pretese, /ma s’impone. – Forse ciò che resta non si mostra ma di certo si fa sentire. Basta il compimento dell’attesa, … questo ci / sta. Oppure: questo ci può stare, o, forse, dell’esserci, nonostante tutto, nella routine quotidiana trasformata, continuamente, dai limiti del tempo: Sta in attesa il passo successivo.
Rita Pacilio
***
Il passo successivo
I gatti nel garage
lasciano zampe di pioggia sul cofano dell’auto.
Remoto gira il motore del mondo
per te come per l’anima dei giusti.
Sta in attesa il passo successivo.
***
A volte la memoria è come certa luce:
si riverbera in pace.
Nell’esperienza d’ ogni giorno si tratta di circolazione
dal multiverso al qui e ora, e viceversa. È circolare
anche quello scambio continuo dei piani, in poesia,
per cui il poeta, pur essendo partito e pur tornando
ogni volta ad una specie di salvataggio della propria
singolare esistenza, non è più solo se stesso, ma può
farsi cifra dell’intera umanità.
***
Lo straniero
Il vento della notte si leva
e soffia
dalla campagna
ai tetti.
Timori antichi attraversano ogni nervo,
un leggero mal di testa
è un segnale
buio.
Dunque sei qui,
e non dovresti stupirtene?
Qualcosa in te domanda
sull’immenso,
dunque puoi:
basta a dire
che non sei cosa tra cose?
***
Noi siamo come una città
Noi siamo come una città:
periferie, orizzonti,
viaggiatori e avventura,
orientarsi e perdersi.
Siamo storie di persone raccontate da persone,
piacere a raccontare,
tristezze a ricordare.
Incontrarsi per sempre,
vedersi una volta e neanche saperlo,
linguaggi che accolgono,
linguaggi che combattono,
linguaggi che ingannano.
I nostri pensieri sono un’immensa città.
Noi
siamo pensieri dell’immensa città.
Il cielo dei pensieri
è un’atmosfera dove nuotano pigramente
o guizzano e restano e migrano inquieti
stormi di milioni di uccelli.
Noi siamo come il centro di un’immensa città,
i piani alti della notte illuminati di luce soffusa.
(Carlo Di Legge, 18 febbraio 2018)
“La poesia non ha bisogno del caos del mondo, ciononostante ne decifra i nodi, gli assoli più acuti e larghi.” Appunto. La poesia non ha bisogno del caos del mondo. Forse. Ma il caos del mondo ha bisogno della continua decifrazione poetica perché anche tramite la poesia noi al caos “facciamo” senso, lo troviamo.
“La poesia, come la libera filosofia, descrive il mondo sempre cangiante della vita. Eppure la descrizione non basta: la ricerca dei mondi interiori, e di quelli esterni a noi stessi, apre la strada, irrimediabilmente, a coinvolgimenti analogici, trasversali alla contemplazione.”
Certo, anche perché, per descrivere, non abbiamo altro modo che quello delle immagini, delle analogie. Il mondo delle analogie è il nostro mondo.
Grazie, Rita, per la tua escursione sul “multiverso”.
Giuseppe Vetromile su "Transiti poetici", maggio 2018
"Sei vivo, dunque, nel mondo di tutti i mondi dei viventi: il multiverso". Così afferma Carlo Di Legge in un brevissimo testo, quasi un aforisma, incluso nel suo recente libro "Multiverso", Puntoacapo Editrice.
Un titolo che è davvero significativo, emblematico, evocativo addirittura: infatti, al di là del richiamo, quasi ovvio e immediato, al mondo della fisica e forse anche della metafisica, volendo riferirsi ad un sistema cosmologico che proprio in questi anni si sta via via sviluppando grazie alle ricerche e agli studi di fisici, astrofisici e matematici, e che riguarda la complessità di un universo dalle dimensioni multiple o forse infinite (universo di universi), il "Multiverso" poetico di Carlo Di Legge è possibile, è accettabile, è immaginabile, proprio in virtù della poesia. Perché è proprio grazie alla poesia che è possibile ricreare situazioni verosimilmente ai limiti della normalità, della razionalità persino e del flusso abitudinario della quotidianità. Le stesse parole, infatti, molto spesso non si limitano a specificare e a individuare il significato, a circoscriverlo entro i confini del "voluto dire", ma hanno un'eco, una ridondanza che allude ad altro, che provoca nel lettore immagini e significati altri, seppur generati dalla parola e dal verso originari. Un multiverso poetico, dunque, nel vero senso della parola.
Ma qui il multiverso è inteso come una sorta di contemporaneità accidentale: è l'apparire, quello che ci riguarda, almeno ad una prima analisi della realtà, dice l'autore, e non la profondità autentica delle cose prese e considerate una alla volta: l'apparire del mondo è multiverso, perché è vario e variabile in continuazione, ed è verosimile in ogni istante, anche contemporaneamente. "E poi / cosa è questo che appare, e come / non dubitare delle cose che sfilano / nell'ordine del tempo? / Anche se l'apparire fosse tutto, / cose discontinue si presentano, / in luce d'esistenza, si oscurano, / compaiono e dispaiono come su scena di teatro, / roteano si disperdono come vortice di foglie." Sono questi i versi essenziali che connotano tutta la raccolta, tutto il progetto poetico dell'autore, il quale dimostra una particolare sensibilità e originalità di osservazione del mondo frammentato, apparente e superficialmente scollegato, in un certo senso, nelle sue multi-parti. La poesia, anche qui, aiuta a capire. Aiuta a indagare, a vedere oltre le cose e le apparenze, a scendere nel perché o perlomeno a collegare l'anima alle cose, emotivamente e senza l'obbligo di doverne spiegare o trovare i motivi!
Ma tornando al libro, vorrei ancora soffermarmi sul sottotitolo, davvero emblematico: "Di quel colore che soccorre, a volte", sottotitolo che è poi anche il titolo della quinta sezione del libro (il quale è infatti suddiviso in sei parti o sezioni: "Multiverso", "Noi siamo qui", "Versioni d'inverno", "Passaggi dell'incerta luce", "Di quel colore che soccorre, a volte", e "Conseguenze"). Avrebbe potuto scegliere come sottotitolo una sezione diversa, invece Carlo Di Legge ha preferito questo "Di quel colore che soccorre, a volte". Io credo che questa scelta sia stata peculiare e indicativa, in quanto compendia e completa in modo davvero esplicativo il progetto, l'idea originale che ha permesso all'autore di sviluppare poi l'intera raccolta. Il colore come elemento redentore, salvifico, in un mondo multiverso dove non è possibile la risposta certa alle domande profonde che ognuno di noi si pone, come dicevamo, perché assistiamo a delle apparenze, a delle immagini superficiali, specchi lontanissimi e opachi di una realtà ben più profonda; ma i colori della vita si stemperano nella visione delle apparenze, contornano di un alone di dolcezza e direi quasi di amore le cose, i fatti, le persone, il mondo: di quel colore che soccorre, a volte!
Concludiamo qui queste brevissime note di lettura dedicate ad un libro davvero singolare, proponendone una piccola selezione di testi e invitando i nostri lettori ad esprimere ulteriori graditi commenti. (Giuseppe Vetromile)
Notte incantata
Notte incantata.
È il germogliare silenzioso dei ricordi,
a musica ferma,
ma più ancora l'incontro di cose sperate.
Voci senza corpo, menti attente, aperte.
E un vestito nuovo di luna.
***
Il passo successivo
I gatti nel garage
lasciano zampe di pioggia sul cofano dell'auto.
Remoto gira il motore del mondo
per te come per l'anima dei giusti.
Sta in attesa il passo successivo.
***
Cos'ero
Dunque, cos'ero? Intanto,
quel che non ero,
un vuoto che a sua volta guarda l'altro,
ma dalla prospettiva dell'assenza.
Quindi, ancor meglio, nulla,
paradosso dell'essere che sono,
come se, pur essendoci, non fossi:
un nulla traversato
da lampi secchi e silenziosi, nei viaggi
in auto e in treno, nei trasferimenti
di sentimenti.
***
A volte la memoria è come certa luce:
si riverbera in pace.
Nell'esperienza d'ogni giorno si tratta di circolazione
dal multiverso al qui e ora, e viceversa. È circolare an-
che quello scambio continuo dei piani, in poesia, per
cui il poeta, pur essendo partito e pur tornando ogni
volta ad una specie di salvataggio della propria sin-
golare esistenza, non è più solo se stesso, ma può
farsi cifra dell'intera umanità.
***
I viali senza fine del pomeriggio
Il pomeriggio è profondo e impraticabile,
ricco di fascino e spaventoso.
Non t'impedisca
la paura di perderti.
Possa tu, come allora,
ribellarti e fuggire
nello strepito rosso degli ulivi.
Per quanto guardi, non vedi la fine.
S'aprono viali di parola.
Poi
niente.
***
Fuoco
Quando esco per strada in questa città che s'apre
verso il mare:
è certo, non posso incontrarti.
Ma in tempi diversi, negli anni, parole come rizomi
sprofondarono nei vecchi muri.
Grani
precipitati a terra
da un disastro d'aria, vogliono vivere.
Fuoco sempre vivo, incendio, incenso che brucia
tra le ceneri del tempo.
(Testi tratti da "Multiverso", di Carlo Di Legge, puntoacapo Editrice, 2018)
(Carlo Di Legge, giugno 2018)
Credo che tu abbia colto bene alcuni caratteri del mio libro.
«Il Multiverso poetico di Carlo Di Legge è possibile, è accettabile, è immaginabile, proprio in virtù della poesia. Perché è proprio grazie alla poesia che è possibile ricreare situazioni verosimilmente ai limiti della normalità, della razionalità persino e del flusso abitudinario della quotidianità».
Certo, grazie alla poesia noi possiamo “ricreare” e riscoprire un mondo nei suoi più impercettibili nessi e aspetti, più che grazie alle formule della fisica teorica. Quelle, almeno in qualche accezione, presumono di descrivere come il mondo sia, e non entro nel merito. Ma a noi perlopiù sta a cuore dire come il mondo ci appaia, e questo è un dire e un ricreare colmo di sensi per noi, non un solo senso, non un solo mondo; la poesia, grazie al quantum di filosofia sempre presente nella vera poesia, non si è mai distaccata dal mondo, ma ha sempre tentato e ritentato il compito di renderlo in parola:
«Un multiverso poetico, dunque, nel vero senso della parola.
Ma qui il multiverso è inteso come una sorta di contemporaneità accidentale: è l'apparire, quello che ci riguarda, almeno ad una prima analisi della realtà, dice l'autore, e non la profondità autentica delle cose prese e considerate una alla volta: l'apparire del mondo è multiverso, perché è vario e variabile in continuazione, ed è verosimile in ogni istante, anche contemporaneamente. "E poi / cosa è questo che appare, e come / non dubitare delle cose che sfilano / nell'ordine del tempo? / Anche se l'apparire fosse tutto, / cose discontinue si presentano, / in luce d'esistenza, si oscurano, / compaiono e dispaiono come su scena di teatro, / roteano si disperdono come vortice di foglie." Sono questi i versi essenziali… »
Perché ho già detto: la descrizione del mondo come mi appare è continua riscoperta di un mondo che ha senso per me - per noi, è creazione e ricreazione continua di sensi. Tu lo cogli bene:
«La poesia, anche qui, aiuta a capire. Aiuta a indagare, a vedere oltre le cose e le apparenze, a scendere nel perché o perlomeno a collegare l'anima alle cose… »
In questa terra di rinascita in descrizione del mondo, affonda radice il mondo delle emozioni, perché sta insieme, indistinguibile se non in descrizione, al mondo delle immagini e dei significati che queste assumono per noi. Amore per le cose è amore e sentimento quindi per la vita:
« I colori della vita si stemperano nella visione delle apparenze, contornano di un alone di dolcezza e direi quasi di amore le cose, i fatti, le persone, il mondo: di quel colore che soccorre, a volte!»
Per questi motivi concordo che, almeno nell’universo dei libri di poesia a cui ho avuto accesso, questo mio sia un «libro davvero singolare». E ringrazio.