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25 Luglio

Rubina Giorgi. La brusca separazione e il ricordo

All’inizio de L’Aleph, Jorge Luis Borges, parlando della morte d’una donna indimenticabile, per mezzo del personaggio narrante espone il disappunto per avere notato un particolare dei quotidiani, altrimenti insignificanti mutamenti nella città, perché da quello egli intese che “l’incessante e vasto universo già si separava da lei”.

Forse perché siamo rimasti duramente colpiti da questa brusca separazione da Rubina Giorgi, che pure sta avvenendo, noi in qualche modo vicini a lei non abbiamo fatto altro alla notizia della sua scomparsa, avvenuta in Roma, nelle prime ore del mattino del 13 luglio 2019: ma abbiamo taciuto, lasciando parlare il silenzio, salvo un piccolo e accorato commento a caldo, dato subito sui social disponibili. Ben piccola cosa rispetto alla dimensione della perdita, che ha lasciato sconvolti diversi amici, anche persone che da molto tempo non erano in comunicazione con lei.

Sono passati più di dieci giorni, ed è come se ci rifiutiamo di prendere atto di ciò che è avvenuto. L’esame di realtà ha fatto ben pochi progressi, forse queste parole aiuteranno.

Né può essere, nei suoi confronti, l’indifferenza: non sarà mai. Non abbiamo avuto solo rose e fiori, con lei, con alcuni aspetti della sua persona, ma qualunque divergenza veniva tolta anzitutto dal suo atteggiamento generoso e conciliante, e così fino all’ultimo giorno.

Ciò che contava per lei, per la sua umanità, o dovrei dire: per la sua transumanità, per quell’oltrepassamento dell’umano che tanta parte ebbe nel suo pensiero di vita, erano proprio gli aspetti di affetto e di amicizia delle relazioni: quelli superavano, in quasi tutti i casi, qualunque divergenza, a meno che l’altro non si rifiutasse a ogni tentativo di recupero.

Nessuno che abbia avuto a che fare con lei è rimasto cieco e sordo alla traccia della sua vita, anche se è certo che, con la sua superiore mente e con la sua natura più spesso sorridente, accogliente e dialogante verso chiunque, ma anche fiera e orgogliosa, lei abbia anche potuto suscitare antipatie, ombre e ombrosità, e non soltanto gettare – soprattutto – una spontanea scia di grande luce.

Ebbi occasione di dirle, una ventina d’anni fa, credo parlando anche per altri, che le volevamo bene e basta, e che non si ama, in generale, perché l’altro è perfetto, ma perché lo si ama: come per certi figli, certi fratelli, certi genitori. O dovrei dire: come per se stessi?

Non indifferenti alla sua vita, ma colpiti duramente e in lutto per la morte. Non solo per come l’abbiamo conosciuta e apprezzata da maestra all’Università, ma anche per l’amicizia preziosa che ci ha donato.

La ricordiamo così, con gli amici che hanno trascorso gli ultimi anni all’università di Salerno accanto a lei, intenta, nelle sue lezioni di filosofia del linguaggio e infine di estetica, a fare in modo che tutti potessero seguirla, cercando magari improponibili accoglienze fino allo stremo e all’impossibilità evidente, a volte facendo di tutto per accogliere nel suo tono del discorso i diversi aspetti e le qualità, i colori di quelli che si presentavano a lezione, a volte lasciando che gli studenti stessi si esprimessero, e cercando di intenderli, portando il dialogo, per gradi, su una caratura più consistente e filosoficamente rilevante. Ma non si trattava soltanto di studiare un programma.

Dalle sue lezioni sono usciti autentici filosofi e poeti e comunque molte persone hanno affinato i propri strumenti di pensiero e lo riconoscono anche rispondendo in questi giorni.

Poesia e filosofia per lei sono insieme, come nelle testimonianze dei primi pensatori dell’Occidente, direi di tutta l’Eurasia: una linea che ho sentito fortemente e che seguo, perché sotto questo aspetto è sempre stata mia, almeno da quando ho scoperto che lo fosse, ma, credo, anche prima.

La sua presenza, e quelle di alcuni pochi altri, hanno onorato l’università di Salerno; passaggi illustri, che gettano una differenza tanto più avvertita, in quanto molti di coloro che sono subentrati nel frattempo e dopo non sono nemmeno stati in grado di sostenere il livello del dialogo con lei – sempre, fino all’ultimo giorno, autentica studiosa di raffinata competenza di pensiero e di scrittura.

Del tutto indifferente agli intrighi universitari e ai riti di potere che là si tenevano, che le davano un'insofferenza autentica; anzi ho sospetto a qualche volta dové subire qualcosa, appunto per non voler entrare in quel tipo di affari. Tanto che qualcuno, amante dei paradossi, oggi può dire: proprio perché certe facoltà dell’Università sono oggi il negativo, sono la perversione di ciò che devono essere, studiosi del livello di Rubina Giorgi adesso non vi troverebbero posto.

Molto aperta e genuinamente curiosa, non si tirava indietro rispetto a richieste di disponibilità, anche passeggiando con noi sulla strada: studiosa di notte (era questa la sua modalità), lei di giorno, dal pomeriggio alla sera, teneva le sue lezioni ed eventualmente si prestava a colloqui e ad uscite di gruppo con studenti e amici, in cui la parola poteva all’apparenza attardarsi ed esitare su argomenti del quotidiano, salvo improvvise, improvvise impennate su quel piano del pensiero, che stava a cuore a molti, a prescindere da quel che sarebbe stato il loro futuro.

Questo ha cercato di insegnare, a pensare, non a chiacchierare in modo più o meno erudito di mini-argomenti di storia del pensiero: come di solito si vede, nel migliore dei casi. Si fa quel che si può, avrebbe detto, con una punta di snobismo intellettuale e di ironia, a lei lo consentivamo: per lei, con lei, anche interessarsi ad antichi e grandi autori “canonici” nella storia del pensiero, come Platone, o all’apparenza eccentrici (in realtà le cose stanno ben diversamente), come al mistico tedesco Jakob Böhme (stava lavorando ancora sui suoi scritti, quando il suo destino l’ha sottratta a questo mondo), aveva un solo senso: usare eventualmente il pensiero d’altri, certo, che ci hanno preceduto, ma per scoprire altri pensieri, e non certo per parassitarne il pensiero, appiattendo il proprio, nascondendolo dietro ciò che altri hanno pensato per noi.

Nessuno può pensare al posto di un altro, come nessuno dovrebbe fare le cose che a un altro compete fare.

Per lei valeva ciò su cui molti grandi sono stati concordi: ciò che io penso, lo sto pensando per me, riguarda la mia vita, e non può ri-guardare te che guardi ascolti: dunque la strada della verità è una strada non tracciata, perché ognuno la scopre da solo, per se stesso!

Questo stesso senso, più in particolare, aveva dunque il proporci il suo pensiero come attraversamento di autori diversi, fossero grandi o meno: era invitarci a guardare e vedere come, in insiemi o “sistemi” strutturalmente ritenuti compatti, come qualcosa su cui nulla è più da scoprire, perché tutto è stato già scoperto o detto, descritto e commentato, salvo eventualmente insignificanti notizie sulla vita o sugli scritti – s’ insinui invece, ancora una volta e poi ancora, e così per sempre, e mai una volta per tutte, l’indagine, e scopra altre e altre possibilità e ingressi, accessi di punto di vista e d’ombra, possibilità sempreverdi e quindi altre e altre possibilità di pensiero!

Questo è stato, spero, il modo in cui abbiamo vissuto la sua presenza e vicinanza, la sua amicizia e anche il suo interessamento. O ci abbiamo provato, e proviamo.

Questo era il contenuto – vivente, se la filosofia dev’essere vivente dialogo e dialogo di vita – di un suo luogo preferito di insegnamento e di scoperta, il terreno-argomento dei possibili, riferito (sempre come spunto d’ispirazione, s’intende) ad alcuni aspetti del pensiero di Leibniz, come quello della famosa characteristica universalis, l’ars inveniendi lulliana, una modalità di calcolo di tutti i pensieri possibili.

Non v’era un aspetto, non una sola lezione, si può dire, in cui qualcosa non ci sorprendesse, a essere attenti e ad intenderla bene, in cui un muro compatto non mostrasse crepe e varchi, in cui l’aspetto consueto di una dottrina (e quale?) fosse dato per definitivo e noto. Lei sapeva anche ascoltare, e, se riteneva interessante il filo della proposta di qualcuno di noi, lo seguiva per tutti e portava tutti a farlo, sulla scorta di pochissime sue idee, o di una sola, di cui qui non parlo perché forse lei non avrebbe voluto (l’ho fatto nel saggio breve del 2009, dedicato al suo pensiero), a cui sempre fu fedele, per così dire, in quanto la riteneva, ancora una volta, potenza mossa e movente, matrice di euristiche e di scoperta, generativa di universi e non dottrina di riferimento rigida e ferma.

Ecco, dietro le quinte del suo pensiero in svolgimento e delle sue lezioni, a cui i più assistevano affascinati, senza intervenire benché fossero invitati, si muovevano le ombre dei grandi pensatori della possibilità, tutti gli aspetti e tutti i tempi, e non stavano invece edifici finiti e rassicuranti, costruiti una volta per tutte.

La sua benevolenza non significava sempre, tuttavia, indulgenza: potrei raccontare tanti diversi aneddoti – una miniera, di questi ultimi (quasi) cinquant’anni di conoscenza. Soprattutto coloro in cui riponeva maggiore fiducia e stima ne sanno qualcosa – si poteva essere sottoposti a impreviste prove, quando meno lo si aspettava: ma, a pensarci, lei intendeva che con certi “privilegiati” non si poteva soltanto lasciar correre e abbozzare, perché forse, parafrasando, non esistono vie regie alla filosofia, e se si stima una persona per come pensa, ciò vuol dire che ci si aspetta di più da lei, e non si può far finta che tutto sempre possa andar bene!

Ricordo la sua voce nell’ultima nostra conversazione, ero alla stazione di Firenze, ultima settimana di giugno, e lei mi telefonò da Macerata. Era in partenza per Roma, preoccupata per via di alcuni oscuri e minacciosi segni del corpo; riuscii a renderla più tranquilla, o così mi disse e mi sembrò. Quando la richiamai, circa dieci giorni dopo, per rassicurarmi e sentirla, non rispose. Era già in clinica, seppi poi, e forse non poteva più parlare.

A mia volta ero restato perplesso, dopo averla sentita, e di lì a tre settimane i fatti parlarono per lei. Ma anche allora in quell'ultima volta, in quella sua maniera lucidissima e intrigante e insieme piena di apprensione e movimenti della mente, di elaborazione per la difficoltà del compito, lei trovò come dirmi del lavoro che si affollava al suo tavolo, che si accampava nelle sue notti, e dell’intrico che la inviluppava in modo da appassionarla sempre, e che era il tedesco del Seicento, la concettualità immensa, barocca e anche intemporale, del “suo” autore, il per lei sempre appassionante, avvincente e con ciò inesauribile e insondabile Böhme.

Così, nel pieno di questa avventura della mente e di vita, ha dovuto arrestarsi: mi domando se non stia proseguendo in qualche universo possibile e parallelo.

Sta per essere pubblicato il suo libro "Vite desideranti". Sarà a inizio agosto.  

Sulla sua ultima opera precedente ho pubblicato circa due anni fa su questo sito una recensione, ancora presente:http://www.carlodilegge.it/filosofia/111-corpo-immagine-ed-emozione-nella-creazione-del-mondo-recensione-a-rubina-giorgi-jakob-boehme-il-corpo-in-dio-e-nell-uomo-la-finestra-editrice-2017 

Sullo sviluppo del suo pensiero e seguendo il filo delle sue opere, in generale e non ancora includendo la fase delle neuroscienze, credo la più completa relazione esistente al momento sia quella sul numero monografico dedicato a lei, n. XXXVI della rivista “Secondo tempo”, che risale al 2009.

Letto 2396 volte Ultima modifica il Giovedì, 25 Luglio 2019 13:27