24 Giugno

Note sul dolore e sul pianto

Note  sul dolore e sul pianto

(La compassione è tutto)

                                                                                                                                       

                                                                    “Quivi sospiri, pianti e alti guai

                                                                     risonavan per l’aere senza stelle,

                                                                     per ch’io al cominciar ne lacrimai”.

                                                                                              Inferno, III, 22-24.

 

 

 

Se penso al pianto, non è ovvio che io risalga al dolore come causa, perché il pianto può anche, per esempio, esprimere gioia. Se cerco invece, all’opposto, di spiegare il pianto a partire dal dolore, o dal disappunto o dal dispiacere o dalla frustrazione, si può anche rispondere che questo non è forse valido sempre per tutte le culture, né certamente per tutte le situazioni. Forse potrei pensare al pianto come modo d’espressione: esprime cosa? Ha senso domandarsi se il piangere esprima un’emozione? Anche con l’altro termine appena evocato, l’emozione, rischio di finire nella palude, per cui dovrò limitarmi a dire che l’emozione è, al tempo stesso, lo stato d’animo che si prova e che talvolta si esprime (e-movere, muovere-da, dall’interiorità?) e che l’espressione tramite il pianto può “voler dire”, può esprimere il negativo, come il dolore. Così credo d’esserci arrivato, in qualche modo posso connettere il pianto al dolore, ma, come si vede, la cosa non è tanto ovvia.

E che dire del dolore “fisico”, che non è propriamente emozione, c’è anche quello, ammesso che vi si reagisca piangendo.

Il piangere può essere un modo di rendere visibile il dolore che si prova.

Un tempo per piangere, uno per ridere, dice in questo senso l’Ecclesiaste. Ma non tutti, è anche la mia esperienza, reagiamo alla stessa maniera a fatti simili, né rispondiamo allo stesso modo in ogni momento della nostra vita. Attraversiamo periodi in cui siamo più disponibili a “scioglierci” in pianto, altri tempi in cui c’irrigidiamo e ci chiudiamo in noi stessi: allora non ci esprimiamo nel piangere, ma con il silenzio, che è attraversabile da una miriade di interpretazioni.

Come ho detto, anche il pianto può esprimere motivi diversi.

Nella storia degli uomini si offrono testimonianze di pianto e di dolore a dovizia, e a maggior ragione nelle arti. La letteratura, campo del verosimile, offre uno smisurato repertorio di umanità in dolore e pianto.

Il dolore è universale e di ogni tempo, così è avvenuto in ogni tempo che uomini e donne abbiano pianto.

La poesia, emozione in parola e simboli, e la narrativa, restituiscono questo fatto. Si legga Dante, tra l’altro nel XXX Canto del Purgatorio (vv. 52-57) o i riferimenti al piangere in Petrarca, al punto che nel sonetto d’apertura del Canzoniere, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, si legge, detto a guisa d’introduzione generale all’opera, “del vario stile in ch’io piango et ragiono” (v. 5). Leopardi, dal canto suo, estende la sorte del dolore e del pianto all’intera esistenza degli uomini: “nascemmo al pianto” (Ultimo canto di Saffo, v. 48).

Dallo stuolo di esempi disponibili, tratti dai massimi capolavori che si ha il privilegio di leggere, molti ne taccio, ovviamente; ma bisognerà che io menzioni il libro XXIV dell’Iliade, con il pianto che accomuna il supplice Priamo, il padre dell’ucciso Ettore, all’uccisore, Achille. La poesia ci porta un momento alto del nostro essere uomini: le emozioni, che sempre ci accompagnano, anche ci possono unire, al di sopra delle divisioni e del sangue.

Il passo omerico, come tanti altri, offre l’occasione per vedere come il pianto non solo esprima, ma

anche trasmetta l’emozione e possa generare altro pianto, nell’interlocutore, o quello degli astanti, o perlomeno possa suscitare in essi la corrispondente emozione. Per usare un termine che è a sua volta insidioso, senza insistere sulle conclusioni delle neuroscienze e sui neuroni-mirror, insidioso perché anch’esso sul bordo del controverso, dell’incerto e dell’indefinito, il pianto è “empatico”.

Oltretutto, non è tanto scontato connettere sicuramente il pianto al dolore, anche per un altro motivo: perché è anche vero che noi siamo in grado di simulare e quindi di procurare il pianto per fingere un dolore, per esprimere e dimostrare un dolore che non proviamo. In questo senso, se vale la connessione pianto-dolore, tuttavia il pianto simulato non è sincero e sta ad esprimere una finzione. Esso vale come segno di qualcosa che non c’è. Qui vale l’alternativa tra il dolore vero e quello falso, tra il sincero e il simulato. Ciò che si esprime, nel caso, è dunque la capacità attoriale, il saper recitare una parte secondo un copione, o sia pure “a soggetto”.

Antonio Damasio riporta che Spinoza pianse solo una volta. Data l’ammirevole grandezza di quell’uomo e la circostanza veramente drammatica che viene riferita, non si può negare la sincerità di quel pianto quasi segreto, quasi sepolto nelle pieghe dei secoli. Io stesso ho assistito (per caso) al pianto di uomini eccellenti, che risolvevano un loro privato sentire, ma esprimevano senza voler comunicare, forse elaborandolo, il dolore, quasi nascondendosi, in circostanze che non lasciavano dubbi.

Ma, come si può simulare amicizia, cosi si possono fingere dolore e pianto. Vale in politica, nella strada, per i tempi antichi ma anche per l’attualità. E dunque ricordo il pianto sincero a cui ho assistito tante volte nella vita. Come tutti ricordano il pianto di un ex Presidente degli Stati Uniti, ripreso in una certa occasione per lui (e per tanti) drammatica. Quell’episodio venne molto dibattuto, tra coloro che vedono in quel piangere l’ennesima manifestazione della magnanimità dell’uomo (e io sarei d’accordo) e quelli che diminuiscono l’uomo che piange alla stregua di una femminuccia, secondo uno stereotipo maschilista tanto triviale quanto diffuso (già al tempo dei Romani valeva l’espressione flens muliebriter, “che piange come una donna”).

Eppure, per quanto bieco possa apparire (ed è, in parte) il senso comune, qualcosa di vero può esserci, se si considera quanto sto per dire.

Riferisce Sarah Rey che le donne nell’antichità erano escluse dalla politica e dagli affari pubblici, anche perché, lei dice, la mente femminile possiede una competenza che l’uomo di solito non ha (la studiosa non intende, mi pare, skill di quelle che sono apprese) per l’espressione di certe emozioni; la donna, di conseguenza, avrebbe avuto (e ha) la possibilità di influire emotivamente su chi ascolta e vede certe cose esprimendole in modo più potente. Escluderla da incarichi e cariche aveva anche questo senso.

Tacito ha scritto che alla donna si addice piangere, all’uomo ricordare: forse perché, secondo lui, la storia è arte della conservazione della memoria e compete agli uomini. Rammento che antiche divinità femminili come l’egizia Iside o la germanico-norrena Freyja vengono associate al pianto. Anche se associare il pianto al rito è forse un po’ diverso dall’esprimere emozioni vere, le donne sono deputate al lamento funebre, in certe culture.

Qualcuno, un “moderno”, ha anche detto che, mentre le donne ricordano gli uomini che le fecero ridere, gli uomini ricordano le donne che li hanno fatti piangere: spiritoso – dunque si ammette che gli uomini possano piangere, in questo caso, per un motivo che s’intuisce.

Ciò non vuol dire che, nei tempi antichi (il titolo del libro di Sarah Rey è Le lacrime di Roma), il sesso maschile non usasse esibire lacrime e pianto, tanto in generale, in circostanze pubbliche come in particolare in politica e in guerra o in privato; se mai, l’attenzione, avverte la studiosa, deve andare sulla strumentalità o meno del piangere e sulla sincerità del dolore espresso, soprattutto perché avveniva in certe occasioni e non da soli. Insomma, il pianto poteva essere un’arma per far politica e persuadere giudici, nonché da usare in guerra, purché fosse da parte dell’uomo giusto, a cui si riconoscesse onestà e sincerità. Altrimenti aveva l’effetto opposto.

Cosa dire allora, nell’èra delle lacrime mediatiche, quelle mostrate a profusione dalla televisione e nel cinema? E di questi giorni molto singolari, in cui siamo immersi nel dolore, nella costernazione, nel lutto come atmosfera, quasi dantesca, che vortica e ristagna su noi e intorno a noi, e nelle immagini di pianto che ci vengono offerte o s’intuiscono?

Molto è vero e non può essere diversamente. Molto è preparato? Non lo credo, può darsi che anche il pianto sia improvvisato, perché, con la liberazione più agevole di certe emozioni, anche la capacità di piangere quando si vuole è diventata una competenza.

Le lacrime hanno tenuto il consueto luogo di espressione e comunicazione di emozioni. Ma le emozioni qualche volta non ci sono, il dubbio è forte, mentre si vede e resta il veicolo che le comunica e le trasmette. Sulla sincerità, chi giurerebbe?

D’altro canto: chi scommetterebbe sulla sincerità degli antichi, quando vien riferito di un uomo che piangeva davanti ai giudici per protestare la propria innocenza, o di un altro che, teatralizzando, si strappava le vesti a causa d’un dolore, per la morte d’un congiunto che aveva sempre odiato, o di Servio Sulpicio Galba, ex pretore poi addirittura imperatore romano, che, per coprire i propri misfatti, introduce o adopera (come è documentato) il discorso patetico?

Il dolore degli altri e il nostro è una cosa molto seria, forse la più seria con cui abbiamo da fare finché abbiamo vita, e ci sarebbe da discutere molto sul tema della compassione di fronte al dolore e alle lacrime, ma, restando per adesso al tema, si vede che certe cose cambiano, certe invarianti sembrano restare, o tornano.

 

(In immagine: Giotto, Compianto del Cristo morto, Cappella degli Scrovegni, Padova)

Letto 1220 volte Ultima modifica il Mercoledì, 24 Giugno 2020 10:59