22 Novembre

Che cos'è la felicità

Relazione tenuta all’incontro seminariale del 22 novembre 2014 
"Officina delle idee" Angri 

Alla ricerca della felicità 1. Che cos'è la felicità

I. Dapprima ho inteso cercare cosa intendiamo quando parliamo di felicità; ma insieme di altri termini affini che entrano a comporre il significato della felicità per noi. 
- Felicità: il Devoto-Oli, diz. etimologico, rinvia perlopiù al Dizionario Enciclopedico Italiano della Treccani. Felicità è dall’arcaico felicidade – sta per la “compiuta esperienza di ogni appagamento” (la beatitudine celeste p. e. è l’eterna felicità). 
- Gioia: dal fr. joje, lat. gaudium – stato o motivo di viva, completa, incontenibile soddisfazione – come “grida di gioia”, “lacrime di gioia, “darsi alla pazza gioia” o anche come aspetto festoso della natura (Tommaseo: “gioia nel cielo”) (io intendo: la viva luce) ma anche della campagna (primavera … per li campi esulta”); a me la gioia offre la nozione di qualcosa di esultante ma anche di esplosivo, breve, rapido. 
- Letizia: lat. laetus , XIII sec. – intima e serena gioia spirituale – nel linguaggio devoto, p. e., sta ancora per la beatitudine celeste. Offre l’impressione di qualcosa di sereno, contenuto, continuo. Spinoza: La letizia, al contrario della tristezza, è l’affetto che accompagna il passaggio a maggior perfezione. (noto che riferisce il Dizionario di Filosofia di Abbagnano: nella tradizione filosofica, i sensi di gioia e letizia ora enunciati si capovolgono per la Stoà – letizia sarebbe quindi per “eccesso” tanto da essere preferita in religione, dove sta per ciò che ho detto sopra, mentre “gioia” sarebbe per un sentimento “conforme a ragione”. Ciò dico per mostrare come spesso il senso che intendiamo si capovolga, secondo il contesto mentale in cui i termini vengono usati). 
II. A questo punto motivo la struttura che, seguendo il libro sulla felicità di Salvatore Natoli (La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli 2003) abbiamo dato al ciclo degli incontri. Infatti si può parlare di: 1) strategie della / per la felicità come problema etico, dove s’includono i modi, o percorsi, nella storia del nostro pensiero, per conseguire la felicità; gli antichi ne parlarono (eudaimonía). P. e. si veda Epicuro e la Lettera a Meneceo. Nel pensiero di Epicuro Aponía e atarassía concorrono alla felicità; ma anche i piaceri naturali e necessari (amicizia, libertà, riparo, calore, cibo, vestirsi …) e, in parte, quelli naturali ma non necessari (purché non abbisognino di stress eccessivo, come oggi diremmo): abbondanza, case enormi, cibi raffinati … ; invece i piaceri non naturali né necessari (successo, gloria … ) procurano più infelicità che felicità. Ciò coincide con il paradosso di Easterlin (1974: per quanto concerne la ricchezza: portata oltre un certo limite la ricchezza causa più disagio che felicità); 

oppure il problema diventa un po’ più mediato e complesso, e allora troviamo 

2) il paradosso della rinuncia (per dire con Natoli, 2003), per cui la maniera di conseguire la felicità consiste nel rinunciare alla felicità o a quel che si è inteso per tale in una certa tradizione di pensiero. S’intende che anche tale aspetto viene trasmesso da una o più tradizioni di pensiero, e, meglio, trova importanti agganci in quell’altra modalità della ricerca delle felicità che è la filosofia; oltre che nella tradizione religiosa, ovviamente, del cristianesimo in particolare. Un punto di passaggio importante tra le due tesi (che la felicità abbisogni di strategie per conseguirla; che la felicità vera consista nella rinuncia a ciò che s’intende per felicità) secondo me sono gli Stoici (vi sono cose importanti per il conseguimento del bene o apatía ma anche ve ne sono di indifferenti; o anche dannose), o anche Kant (v. il sommo bene: esso viene inteso come coincidenza di virtù e felicità. Ma la felicità, che secondo Kant si trova perseguendo scopi sensibili, non coincide mai su questa terra con la virtù, che invece è dominio della ragion pura pratica e quindi degli imperativi del mondo soprasensibile). Dal punto di vista religioso invece l’enunciazione del paradosso si trova nel discorso della montagna o delle beatitudini : p. e. « … Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia… (Per tutti i precedenti motivi, n. d. r.) rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Matteo 5,3-12). Per tacere del buddhismo, che lo si consideri come religione o come filosofia. 

III. Conclusioni. Le provvisorie e caute conclusioni possono essere: 
- quando si parla di dolore, o dispiacere, a quanto pare, tutti si sentono in diritto di dire che hanno i loro problemi e tutti si sentono in dovere di essere comprensivi e quanto meno cortesi verso gli altri; strana e forse bisognosa di spiegazione tale constatazione;
- e, comunque, la felicità avrebbe (secondo Natoli, 2003) le caratteristiche di: 
1. essere nel proprio ricordo quindi nel passato altrimenti non la si riconoscerebbe, 
2. consistere nella sensazione dell’illimitata espansione di sé, 
3. consistere nella sensazione di detenere l’oggetto della felicità in quanto, almeno in quell’istante, imperdibile; 
- anche se si dice o si crede di non saperne molto di persona, tuttavia la felicità è cosa che è, perché invece la letteratura, la poesia, il pensiero, nella tradizione, ne hanno parlato molto, e ne hanno anche offerto diverse versioni, il che è del tutto ovvio. Infatti l’intuizione (più che la precisa visione!) del repertorio spirituale sul tema lascia pensare a esperienze che hanno qualcosa in comunque forse ma che rivelano anche qualcosa di molto diverso. Tutto ciò costituisce parte della ricchezza dell’umana esperienza.

Letto 1817 volte Ultima modifica il Lunedì, 05 Giugno 2017 14:47