Dal valico
Sui tornanti del valico, tra una faccenda e l’altra,
un’immagine mi torna,
ecco la piana, all’epilogo costiero, laggiù
tra il vecchio Vesuvio e l’erta dei monti a sinistra,
scompare in un muro di nebbia.
L’occhio s’arresta,
il mare manca, il vulcano galleggia.
Non è la prima volta, ma oggi
ha un’aria da piccolo enigma: sulle prime,
immagino (sono
qualche metro più in alto) città morte, gas
che i condannati alla terra respirano. Poi:
no, dev’essere umore di terra e di mare,
d’incalcolabili parti di luce d’Oriente, che
s’alza nel mattino.
Faccio cose, parlo con qualcuno, guido, tornando,
l’immagine va per suo conto, forse ci si ritrova
– ed è in periferia: donne e uomini, giovani e vecchi,
bambini, gialli e neri o bianchi, a ciascuno il suo
attimo,
bello vederli vivere, vanno al lavoro, qualcuno piace a qualcuno,
hanno passioni e battaglia.
Libero da biasimo e lode, per nulla,
ma è per me un diverso guardare, adesso: accade, è
come un abbraccio,
senza troppa brama – d’innumerevoli
figure, qualcuna si ferma, verbi gratia piuttosto che trincea.
È ancora tempo, qualche centimetro di gloria
nel giro, lo so
quasi come un bimbo, non esagero, lui solo un po’
più indietro di me.
D’ogni amata differenza, catturo parole: consistenze di
montagne e nebbie, valichi,
ci gioco per un po’. Spio
transiti dalle immagini vive allo sbiadire delle strade.
Non più centri né periferie, fine di tutto questo.
Da illusoria sponda, guardo il disordine:
e ci sto dentro.
Gennaio 2020